Prossimamente a Roma l’esposizione fotografica di Marco Maria Zanin, tra l’estetica della cultura contadina e la sublimazione di forme astratte
di Maddalena Scarabottolo
Marco Maria Zanin con la II Personale inaugurata alla galleria Spazio Nuovo di Roma, intitolata “Parentele di terra” e in programma fino al prossimo 17 luglio, solleva dei quesiti interessanti riguardanti le analogie che delineano il patrimonio spirituale e materiale di alcune comunità umane territorialmente distanti.
In questa occasione Zanin presenta una serie di opere che evidenziano delle affinità rilevabili tra l’antica cultura veneta contadina e i manufatti prodotti dalla popolazione amazzonica degli Yanomami e quella peruviana degli Q’ ero.
Grazie a questa installazione la galleria si trasforma in un luogo culturale, una sorta di laboratorio dinamico, che rielabora i registri dello spazio e della memoria collettiva attraverso il recupero del patrimonio immateriale di conoscenze, tradizioni, saperi e miti che queste popolazioni hanno prodotto in relazione al proprio ambiente.
I soggetti delle foto e le forme delle ceramiche si presentano come il frutto del patrimonio espressivo che noi umani possediamo come bagaglio genetico universale costruendo tracce visibili di una continuità con esso.
Le opere presenti in mostra si costituiscono come dei veri e propri catalizzatori di codici e valori culturali che permettono all’ampia tipologia di osservatori di fruire della realizzazione artistica secondo un linguaggio comune che nella maggior parte dei casi si spinge fino alle porte dell’astrazione.
Le fotografie e i manufatti proposti per l’occasione, le cui forme sono decostruite dal punto di vista di una precisa cultura, si solidificheranno nei ricordi come simboli della traduzione di un nuovo lessico interetnico pregno di tradizioni, semplicità e lirismo.
Proprio per tale ragione alla fine del percorso espositivo si apprende, in modo quasi inconsapevole, che le linee e le strutture delle opere ci appartengono in qualità di archetipi: una sorta di prescrittura decodificabile attraverso sensazioni, impulsi e immaginazione.
La pulizia formale estremamente comunicativa dell’installazione di Zanin assume così una dimensione universalistica e astorica a dimostrazione del fatto che le culture sono in costante migrazione, pur mantenendo nel profondo una resa simile a quello che è il linguaggio simbolico umano reso privo di implicazioni nazionalistiche o etniche.
All’interno della molteplicità di queste relazioni s’inserisce un altro aspetto molto interessante della ricerca di Zanin riguardante il particolare utilizzo del ready-made. Di consueto quando un artista si confronta con questa pratica non fa altro che estrapolare un oggetto dal suo contesto originale per poi riposizionarlo tale e quale in un altro donandogli senso artistico. Le opere in mostra, evidenziano invece un’ulteriore rielaborazione di questo importante concetto come ad esempio si può osservare in Transcategorical Objects, 2021.
Il punto di partenza di tale ricerca sono arnesi appartenuti al mondo contadino in epoche passate che vengono inizialmente decontestualizzati e trasferiti nello studio dell’artista per poi diventare una copia degli stessi, grazie alla manipolazione della ceramica, secondo scale molto più elevate rispetto alla loro reale grandezza.
A questo punto si verifica la svolta: il nuovo prodotto viene reinserito nel suo contesto d’origine, viene immerso nell’ambiente di provenienza e qui fotografato. Quest’ultima azione crea intrecci, sovrapposizioni, assonanze e aderenze tra spazio e artefatto.
Il ready-made ha così acquisito una vita ciclica e non più parabolica, come avviene di solito, in quanto gli viene garantita la possibilità di caricarsi di nuovi sensi e funzioni concettualmente rinnovabili all’infinito.Parentele di terra si costituisce così non solo come un tassello legato alle ricerche della scienza antropologica ma anche come un punto nodale riguardante l’evoluzione interpretativa del concetto di ready-made.