Torna a distanza di cinque anni il cantautore britannico, con un nuovo album che affonda nei temi della spiritualità individuale e dell’etica collettiva. L’intervista a cura di Mattia Borrelli
di Mattia Borrelli
La nostra vita è una trama ininterrotta di opposti: piaceri e dolori, paure e desideri, colpe e redenzioni. Penzoliamo costantemente su un filo teso verso l’infinito. Sarebbe prudente non guardare giù. Cadere potrebbe significare morire, chi lo sa. Potrebbe significare rinascere.
Shapes of the Fall, è un invito a confrontarsi con le forme del vuoto. È un’indagine accurata della vita e della morte. È la voce della terra, è il suono del cielo.
In occasione dell’uscita di questo nuovo album, ho voluto incontrare il suo autore: Piers Faccini.
Come nasce l’idea di quest’album?
PF: Nasce dalla voglia di condividere una storia, di parlare in maniera concettuale della caduta e delle sue rispettive forme. Ho scritto quest’album immaginandolo come un libro diviso in vari capitoli. La parola fall nella lingua inglese, è una parola soggetta a varie interpretazioni: oltre al significato letterale, questo termine ricorda molto l’idea dell’autunno, le foglie che cadono e il ciclo delle stagioni; è anche un chiaro riferimento alla cacciata dell’uomo dal giardino di Eden. L’attività umana, nei nostri giorni, si sta manifestando in maniera prepotente ai danni della natura; per questo adopero la figura dell’espulsione: ci stiamo noi stessi allontanando dal giardino, inconsapevoli del fatto che viviamo già in un paradiso.
Dov’è stato registrato il disco?
PF: È stato registrato in Francia, in uno studio che si chiama Black Box, una vecchia fattoria in campagna ad un’ora da dalla città di Angers. Ho deciso di non registrarlo a casa mia perché il mio studio è troppo piccolo. Avevo bisogno di spazio per suonare e creare insieme agli altri musicisti. Così ci siamo ritirati ed isolati per due settimane. Lavoro spesso in questo modo. Così facendo siamo più focalizzati nella musica. Gli unici due ospiti che per la pandemia non hanno potuto raggiungermi sono Ben Harper e il maestro Abdelkebir Merchane, che hanno registrato nelle loro rispettive residenze.
Fall, come ne parlavamo anche prima, oltre a dare il titolo al disco, è una parola che si ripete spesso all’interno dell’opera. In particolar modo nel brano The Real Way Out, accosti il termine con la parola Reborn. Vorresti forse dire che è necessaria questa forma di tensione ciclica per raggiungere il nostro equilibrio fisico, spirituale e mentale?
PF: È giusto quello che sottolinei. Voglio dare l’immagine di un cerchio, di una ruota, di un qualcosa che gira costantemente; la vita che scompare e poi appare di nuovo; la nascita e la morte. Noi esseri umani oltre ad avere una dimensione fisica e quindi un corpo, abbiamo la consapevolezza di realtà più sottili. Non voglio spingermi ad argomenti religiosi. Voglio solo esprimere il senso della vita. Siamo vivi perché respiriamo, e l’aria che attraversa il nostro corpo crea una connessione di energia unica. Quando il corpo si spenge, quest’energia si trasforma in qualcos’altro e respira a sua volta in altre forme diverse. Vedi? Siamo soggetti a diversi cicli. C’è da dire, però, che siamo anche noi a dover decidere come voler vivere. Possiamo vivere in pace, in armonia con la natura o possiamo vivere male, sostenendo l’inquinamento, le guerre etc.
Le forme della caduta, altro non sono che le forme della vita. La vita prende forme diverse: avvolte prende la forma di una foglia, altre volte quella di un uccello, d’una pianta e così via. Sta tutto qui il senso.
Ascoltando l’opera, ho notato che l’uomo sparisce nella misura in cui la natura prende il sopravvento e viceversa. Dove si trovano i punti di rottura e di unione che regolano questo rapporto millenario?
PF: Abbiamo sicuramente molti punti in comune con la natura. Basta saperla ascoltare con tutti i sensi. Attraverso la vista, i profumi, i suoni. Una volta che si riesce a capirla, ti rendi conto di quanto siamo sbagliati.
Stiamo pagando a duro prezzo gli sbagli della civiltà occidentale. Quando l’uomo vuole dominare la natura per farne un oggetto di commercio e cercare un suo profitto monetario, vengono a galla tutti i punti di rottura.
L’album si confronta con diverse sonorità ed evidenti riferimenti al Mediterraneo. Cosa ti ha portato a scegliere determinati paesaggi sonori per descrivere quest’opera?
PF: Questi suoni e ritmi mediterranei che ho scelto di adoperare, sono legati al concetto della guarigione. Sono musiche molto antiche da un potere incredibile. Se avessi dovuto rappresentare questo disco in pittura, avrei adoperato certamente un chiaroscuro. Il lato oscuro è senz’altro associato al lamento e ai gravi danni che stanno soffrendo la natura e la biodiversità. Il chiaro e la luce sono invece la speranza. Per questo vado a citare musiche come il tarantismo, il Gnawa del Maghreb e i riti Sufi: per raggiungere la trance tradizionale di alcuni paesi che si trovano attorno al Mediterraneo. Dal ritmo più lento a quello più veloce, voglio ricreare l’effetto di un cerchio, di una ruota che gira, che cogliendoti all’improvviso può farti staccare i piedi da terra.
Le tue scelte artistiche sia per tematiche che per ricerche sonore, sembrano non seguire il mondo del mainstreaming, ovvero un mondo pieno di compromessi con il mercato musicale.
PF: Io provo sempre a raccontare qualcosa, non penso a nient’altro. Non penso mai al commercio o al mercato. Se la musica ha di per sé una certa energia, troverà il modo di comunicare e farsi strada. Non voglio convincere nessuno, sai? Io condivido una storia. Condividere è l’esatto contrario della seduzione pubblicitaria, che spesso e volentieri ti convince a comprare qualcosa di cui non ne hai nemmeno il bisogno. L’arte deve seguire il verso opposto.
Visto che abbiamo parlato di Mediterraneo, mi vengono alla mente le parole di due pensatori dell’età classica. Il poeta greco Simonide sosteneva che “all’uomo deve appartenere il sapore delle cose umane”, mentre Aristotele per antitesi diceva che “l’uomo per quanto gli sia possibile deve elevarsi alle cose immortali”. Dove si colloca quindi la musica di Piers Faccini fra queste due correnti di pensiero?
PF: La caratteristica peculiare dell’essere umano è che siamo fatti di materia. Abbiamo un corpo e questo corpo ha un limite nel tempo. Siamo legati inevitabilmente alla terra perché veniamo e ritorniamo dalla stessa. D’altro canto dentro di noi abbiamo anche una realtà talmente sottile che non si può definire; una parte mistica che va a comporre e a definire la nostra identità, di chi siamo. La mia musica possiamo dire che è una danza o anche un ciclo che collega cielo e terra.