Uno stile unico, teso come una corda di violino, e una visione del mondo che non fa sconti al lettore: il secondo romanzo dello scrittore trevigiano è già un cult tra molti giovani che si indentificano nel protagonista Lorenzo e si rispecchiano nel suo spaesamento esistenziale
Bruciante, profondo, tagliente, anticonformista, intriso di disperazione ma poetico e commovente dalla prima all’ultima parola: Testamento (pubblicato da CSA Editrice) è un romanzo tosto, questo è bene dirlo subito, uno di quelli che ti prende a schiaffi in faccia ma che sa anche cullarti con la dolcezza di certi passaggi lievi come i sogni. Lo stile di Marco Gottardi (42 anni e otto titoli all’attivo più altri due romanzi in cantiere) non lascia indifferenti, la sua prosa ha l’ardire di rovistarti nelle viscere, e di andare giù, dove pensi di avere nascosto paure e desideri, per tirare fuori tutto, senza indulgere in mistificazioni né illusioni.
Del resto, l’idea di letteratura o, per meglio dire, la fede letteraria che lo scrittore ha abbracciato è chiara: «Mi piace leggere libri che lasciano il segno,» spiega Gottardi, «come diceva Kafka in una lettera a Oskar Pollak del 1904, “bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono”; i miei autori prediletti, pertanto, sono quel mostro di Faulkner, quel genio malinconico di Cortazar, il maestro Onetti, e molti altri che scavano nell’animo umano senza reticenze, perché, per riprendere ancora le parole di Kafka, “abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male”, insomma, “un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi”. Ecco, credo che Testamento rompa il ghiaccio che è dentro molti di noi, a volte spaccandolo, altre volte sciogliendolo piano».
La storia è semplice (ma non lo è affatto il modo di raccontarla e la capacità dell’autore di entrare nella mente e nell’anima dei personaggi per denudarli, per offrirli al lettore nella loro purezza senza gravarli di alcun giudizio di carattere morale): Lorenzo, giovane di buoni ideali, da uno sperduto paesino di montagna si trasferisce a Venezia per frequentare l’università e realizzare le sue ambizioni di scrittore; ma gli anni trascorsi lontano da casa, dagli studi fino all’assunzione in un’importante casa editrice, saranno densi di eventi che faranno maturare nel protagonista una sfiducia nel futuro e nell’uomo, fino a far crollare miseramente l’edificio di valori che il ragazzo aveva con sé al suo arrivo in città, trasformandolo in un disinteressato spettatore della sua stessa catastrofe. In questa sorta di Éducation sentimentale cresce un romanzo che potremmo definire di anti-formazione: un grande affresco dei nostri tempi in cui i temi dell’amore, della funzione dell’arte e della vacuità del vivere sono magistralmente ricondotti alla loro essenza.
Il racconto dei fatti è affidato a due narratori (il protagonista che scrive in prima persona e il tradizionale narratore onniscente), che si avvicendano nel fluire della storia senza uno schema preciso e ripetitivo, dando vita a un continuum narrativo modulato su due voci estremamente diverse tra loro che rende la lettura ancora più intrigante. I pezzi in prima persona, però (e questa è la caratteristica davvero sorprendente e originale del romanzo!), sono tra loro collegati e possono essere letti in sequenza autonomamente (saltando, cioè, i pezzi in terza persona) in quanto costituiscono un libro nel libro: si tratta di una lunga e coinvolgente lettera d’addio che Lorenzo scrive alla sua ragazza conosciuta a Venezia, raccontandole il suo passato e le esperienze che lo hanno condotto fino al punto di lasciare tutto, lei compresa. È un Testamento, insomma, ma un testamento filosofico, potremmo dire, nel quale Marco Gottardi è abilissimo a mescolare la lezione degli esistenzialisti e dei nichilisti con una lettura spiccatamente personale e profondamente emotiva della società contemporanea e del disagio che attanaglia tanti giovani d’oggi.
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