VIOLA, PIÙ CHE SEMPLICEMENTE
di Paolo Marra
Spesso sono i particolari a tratteggiare i contorni indelebili di eventi destinati ad entrare nelle pagine della storia. Kamala Harris – primo vicepresidente donna, di origini afroamericane e indiane della storia americana – in abito viola che giura sulla bibbia di Thurgood Marshall- primo afroamericano nominato come giudice della Corte Suprema- è una delle istantanee dell’Inauguration Day che più hanno attirato la nostra attenzione. Il fattore estetico c’entra poco, anche se gradevole. Ciò su cui vogliamo soffermarci è il profondo significato evocato dal “Purple”, il colore della lotta per l’affermazione dei diritti delle donne, contro violenze e soprusi, legato a doppio filo col razzismo radicato nel DNA della parte monca della società americana raccontati nel romanzo “Il colore viola” di Alice Walker. Nata nello Stato della Giorgia, di origini povere- il padre è mezzadro e la madre cameriera – sin da piccola la scrittrice e attivista afroamericana coltiva la passione per la poesia fino a diventare la prima donna di colore a vincere il premio Pulitzer nel 1983 proprio con il libro che racchiude nel “viola” del titolo la vittoria della vita sull’odio, dell’amore sulle ingiustizie.
Il viola è anche il colore che fonde al suo interno il rosso dei repubblicani e il blu dei democratici, chiamati all’unità per porre in essere il quadro sfregiato dal “terrorismo domestico” scatenato dalle frange estremiste dell’universo statunitense, con il quale l’opinione pubblica americana ha preso coscienza, forse troppo tardi, di dover fare i conti. Uno sforzo condiviso, auspicato dal neo eletto Presidente Biden nel suo conciliante discorso d’insediamento di mercoledì scorso, per ricomporre quella “democrazia incompleta” messa a dura prova dall’attacco a Capitol Hill di qualche settimana fa. Un monito per il Democratic Party per non ricadere nell’errore di chiudersi all’interno di giardini elitari, fuori dagli spazi reali lasciati alla mercé di dottrine nazionalistiche, terreno fertile del malessere profondo, serpeggiante dal basso, pandemico come il virus lasciato libero di circolare in nome dell’economica muscolare mostrata al mondo dall’ormai ex presidente Trump, che lascia dietro di sé una scia di migliaia di morti, danni ambientali e crisi nei rapporti internazionali.
Ma come non citare, infine, il colore viola della “pioggia”- dal titolo di una delle canzone più famose e straordinarie del compianto musicista di Minneapolis Prince – quasi a voler evocare, in piena crisi sanitaria, economica e sociale il bisogno di “lavare”, attraverso gli ideali di uguaglianza e tolleranza, la macchia lasciata dal fango gettato sul sogno infranto di un’intera nazione. I 17 provvedimenti esecutivi firmati dal nuovo Presidente, a poche ore dell’insediamento alla Casa Bianca, delineano la direzione verso il cambiamento mettendo subito in chiaro la volontà di un’inversione di marcia netta rispetto ai quattro anni di amministrazione trumpiana per quanto riguarda emergenza sanitaria, clima, emigrazione, equità sociale ed economica. Il compito di ricucire le ferite profonde che lacerano il tessuto sociale americano a cui è chiamato John Biden e la sua vice Kamala Harris non è compito facile, ma mai come ora è indispensabile agire in fretta per evitare che il “black out delle coscienze collettive” abbia il sopravvento sulla ragione dando origine a un effetto domino globale. Le premesse ci fanno essere fiduciosi, a partire dall’interruzione dei lavori per la costruzione del Muro al confine con il Messico, passo indispensabile per scrollarsi di dosso l’odioso ruolo di supremazia capitalistica costruita negli ultimi quattro anni, non così dissimile nei fini più che nei mezzi alla dittatura cinese. Il viola sfoggiato da Kamala Harris, con elegante fierezza, deve diventare il colore di “una nuova alba”, originata dalla cooperazione congiunta all’interno e all’esterno della terra delle opportunità.