Dopo il commiato, la riflessione, quella per un eroe moderno che incarna il bisogno collettivo di identità
di Paolo Marra
Vincere le leggi della fisica danzando con la palla, dribblare le ingiustizie poste davanti al proprio riscatto vestite di maglie ogni volta differenti, ammaliare il pubblico con la parabola impossibile della sfera battuta col colpo mancino impressa nella memoria di bambini diventati adulti e di altri bambini che lo diventeranno, non cadere mai in campo perché la natura si è divertita a donarti un perfetto baricentro sopra gambe diventate robuste nelle strade polverose di Villa Fiorito, cadere fuori dal rettangolo di gioco perché troppo umano per sostenere il peso di essere il dio degli esclusi, a Napoli come a Buenos Aires, ma alla fine di ogni abitante a Sud dell’oppressione di chi spadroneggia.
Non è semplice mitologia il racconto che oggi facciamo di Diego Armando Maradona, scritta negli annali del calcio per essere lasciata ai posteri, ma vita vissuta, spremuta, fatta di gioie e rimpianti, di fughe e ritorni, una vita appartenente, nel bene e nel male, ad ognuno di noi e la cui tragica fine ci fa sentire più soli. Ed è proprio la solitudine del campione divinizzato dalle masse, attaccato dai padroni della FIFA, usato e poi gettato alla gogna pubblica da uomini guidati da meri interessi, schiacciato da debolezze recondite, ad essere emblema del destino dell’America Latina e di altrettante aree del nostro mondo fintamente etichettato come “globale”.
Mi vengono in mente le parole del grande scrittore colombiano Gabriel Garcìa Màrquez nel discorso che tenne in occasione della cerimonia di consegna del premio Nobel per la letteratura il 10 Dicembre del 1982 a Stoccolma dal titolo “La Soledad de América Latina” nel quale disse:
“Poeti e mendicanti, guerrieri e malandrini (aggiungo calciatori), tutte noi creature di quella realtà eccessiva (quella meravigliosa America Latina), abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali, per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine”.
Maradona ha cercato di affermare la propria identità all’aldilà dell’indiscusso estro calcistico, meraviglioso ed eccessivo, e dello sfarzo malamente smisurato, rimanendo schiacciato da un sistema pronto a pagare il genio messo a servizio dello spettacolo e con altrettanta lestezza a svendere l’uomo con le sue fragilità, ma caparbio, mai in silenzio davanti alla verità, celato dietro l’immenso talento. Ma è questa la comune solitudine dei figli di un continente lusingato e abbandonato e di tutti gli uomini chiamati ad essere “esclusi” per i quali le pennellate disegnate con la sfera da Diego Armando Maradona sono stati, come i colpi accompagnati dal balletto della farfalla di Muhammad Ali sul ring, non soltanto slanci atletici, nei quali lo sport diventa forma d’Arte, ma atti di protesta, di comunanza tra popoli, atti politici, la cui straordinaria bellezza diventa Rivoluzione. La palla calciata da El Pibe de Oro al cielo sopra lo Stadio San Paolo, gremito della gente urlante dei vicoli stretti di Napoli, diventa, come il pugno alzato dal velocista Tommie Smith alle olimpiadi di Città del Messico del 1968, emblema di lotta alle disuguaglianze per i diritti di ogni uomo libero senza distinzione di razza e condizione sociale.
Ed è proprio a Città del Messico, allo Stadio Azteca, nei quarti di finale della Coppa del Mondo del 1986, nella partita tra Argentina e Inghilterra, in quei 60 metri percorsi in 10 secondi scanditi dallo slalom incredibile di Dieguito tra i birilli di Sua Maestà, nella narrativa del Goal del secolo, che tutto ha inizio, facendo diventare il gioco del calcio manifesto della rivendicazione contro l’arroganza del Potente di turno- nel caso specifico della Lady di Ferro Margaret Thatcher, Primo Ministro Inglese, nel conflitto militare contro l’Argentina per il controllo delle isole Falklands, nel 1982.
Un manifesto concretizzato nell’abbraccio al socialismo del XXI secolo, nato dagli incontri successivi con Hugo Chàvez, Fidel Castro, Evo Morales, Rafael Correa e Nicolàs Maduro, nemici giurati della prosopopea imperialista a stelle e strisce impersonificata da quel George Bush che Maradona, in un programma televisivo trasmesso dalla TV cubana, in compagnia di Fidel Castro, addito come “assassino”. Alla fine l’immagine che ci portiamo dentro del più grande calciatore di sempre è quella lasciata al popolo sui muri di Napoli, con la folta chioma al vento de “El Pelusa”, nell’afflato verso la vittoria sognata da bambino, nel quale l’uomo diventa atleta e l’atleta un mito senza tempo.