Il braccio di ferro tra Biden e Trump per la 46ma poltrona presidenziale degli Stati Uniti accende un faro sulle fragilità strutturali dell’impianto democratico
di Paolo Marra
Biden evoca “patience” per giungere alla vittoria, dall’altra parte Trump, con la solita sicumera da tycoon spavaldo, mette in guardia l’opinione pubblica dal pericolo di imbrogli elettorali nascosti tra i circa 70 milioni di voti espressi per posta – causa pandemia- appellandosi prematuramente all’intervento della Corte Suprema a maggioranza repubblicana – il numero dei giudici conservatori con la nomina, a una settimana dal voto, di Amy Coney Barrett, scelta dallo stesso Trump, è salito a sei contro i 3 di orientamento liberal – in tutto questo avremmo voluto vedere disattese alcune certezze e non confermata l’unica incertezza di queste ore: il nome del 46esimo Presidente della più importante superpotenza globale.
Una certezza è un sistema di voto controverso, nella quale la dicotomia tra la maggioranza dei voti espressi dall’insieme del popolo americano per uno dei candidati e l’eventuale vittoria di quel candidato diventa un paradosso istituzionale. Ricordiamo che l’elezione del Presidente Americano è indiretta. Gli elettori votano 538 grandi elettori che in seguito, nel mese di Dicembre, eleggono formalmente il Presidente e il suo vice. Non vince chi ha la maggioranza relativa dei votanti ma chi ottiene la maggioranza assoluta dei 270 grandi elettori. Lo squilibrio fra il numero della popolazione di ogni Stato e il numero di grandi elettori assegnato a ognuno di essi può portare – come successo nel caso dell’elezione di Bush Junior e Trump nel 2016 – all’elezione del Presidente con una minoranza di voti ottenuti.
Per effetto del Winner takes all un solo voto in più determina l’ottenimento di tutta la “posta in palio”, in termini di grandi elettori, dello Stato in questione e se questo è uno Swing States – richiamati in queste ore, dove sono gli indecisi a fare la differenza – l’ago della bilancia potrebbe pendere dalla parte opposta al volere di una larga fetta del popolo americano. L’altra certezza è l’alta affluenza di elettori, attestatasi intorno al 65%, indice di un paese sull’orlo di una crisi di nervi generazionale alla frenetica ricerca di un’identità sfigurata dal ritorno dei suprematisti bianchi e da un’economica cinica davanti ai cambiamenti climatici, messa in ginocchio dalla sottovalutazione sproporzionata degli effetti della pandemia globale. Per trovare un’affluenza superiore al 60% – dall’introduzione del suffragio universale nel 1920 – dobbiamo ritornare indietro di 52 anni al 1968 con la vittoria di Nixon, guarda caso con un margine striminzito sul rivale democratico Edmund Muskie.
Altra certezza è il colore rosso della pancia rurale di quel corpus statunitense, non in buona salute, indicante gli Stati ad orientamento repubblicano. Uno scollamento sempre più evidente dalle coste est ed ovest inondate dalla Blue Wave democratica che dà la misura di uno scontro sociale con cui da tempo il sistema americano sta cercando, invano, di confrontarsi, esacerbato da una campagna elettorale al limite della decenza politica. La non accettazione da parte di uno dei due contendenti del risultato delle elezioni e l’inevitabile divisione del paese in due poli contrapposti potrebbe dar luogo alla propagazione di un’onda d’urto dagli esiti imprevedibili. Tutto si vedrà nei prossimi giorni, ma a prescindere dall’esito delle elezioni la speranza è di non vedere sgretolarsi il modello democratico degli Stati Uniti sotto i colpi della belligeranza tra democratici e repubblicani, vero spartiacque delle dinamiche sociali ed economiche del sistema americano dei prossimi quattro anni.