Da poco pubblicato il suo settimo album “Le mutazioni del lupo” l’artista molisano si appresta alle prossime uscite live
di Davide Iannuzzi
Una chitarra e una voce, da Robert Johnson al cantautorato italiano le distanze non sono poi tanto siderali, quando tradizione e autenticità accompagnano un artista lungo il sentiero della passione in un cammino che dura da oltre quarant’anni, e Lino Rufo non ha mai tradito il suo clichè, dai tempi del Folkstudio ai decolli in voli ad ad alta quota di suoi illustri colleghi come Vasco Rossi fino all’incontro con John Mayall. Minimalismo e semplicità alimentano da sempre le sue canzoni che hanno nel blues il loro punto di aggancio alla cultura popolare italiana in un rapporto simbiotico, un ematico scambio reciproco come se le acque del Mississippi affluissero in quelle del Mediterraneo. Lino Rufo presenta al pubblico il suo settimo album tenendo fede a quella scansione produttiva di sempre fatta di idee germinano spontaneamente e maturano in stagioni che si lasciano attendere ma poi sopraggiungono inesorabilmente. “Le Mutazioni del Lupo”, un titolo che sa di metafora quanto di concept, uno sguardo artistico frutto di un travaso di dosata autobiografria e analisi collettiva per approdare ai temi della quotidianità umana nella ciclicità degli eventi che l’accompagnano. L’artista molisano si racconta nel suo passato e nel suo presente, specificano come l’esigenza creativa che nasce dal consolidamento con il pubblico nella dimensione live sia l’unica e autenca strada che accompagni al futuro.
M.F. Qual’ é l’essenza più italiana e mediterranea del blues?
Nel blues non c’è un’essenza definita, bensì, per dirla col linguaggio di un padre del “genere”, John Lee Hooker, “…tutto quello che viene dall’anima è blues”. Quindi, alla luce di tutto questo, il folk italiano autentico è blues, il songwriting è blues, il rock mediterraneo è blues: non è blues soltanto quello che, in Italia, viene spacciato per tale, riproponendo le 8 e le 12 battute, perché contiene solo la forma e non lo spirito del blues, quindi dell’anima.
M.F. L’incontro con un gigante del blues avviene pochi anni fa: cosa ha segnato dal 2014 ad oggi l’ esperienza live con John Mayall nel suo tour italiano?
Poteva segnare l’inverosimile per me, che ero un suo fan fin dall’adolescenza, cambiare il mio mondo, ma l’incontro è stato alquanto deludente dal punto di vista umano. Io ero emozionato all’idea d’incontrare un mio grande mito, ma si è spento ogni entusiasmo quando mi sono trovato davanti a una persona schiva, fredda, scostante, che non aveva complicità neanche con i suoi tre musicisti (che si sono sfogati con me): una gran delusione! Ho appreso più dai suoi dischi che dalla sua persona.
Hai alle spalle una carriera quarantennale e una cellula embrionale condivisa con molti artisti del firmamento italiano più prestigioso; il folkstudio. Puoi raccontarci qualcosa di quel periodo e in che misura erano dosati idealismo e aspettative di successo?
Era un’epoca in cui c’era un grande coinvolgimento politico e letterario. Ognuno di noi era assetato di letture e di creazione di un linguaggio artistico originale, unico. Più che l’aspettativa di successo, che indubbiamente c’era ad opera di alcuni, la ricerca di qualcosa di nuovo e di bello era l’esigenza incontrastata dei più: un momento storico che, oltre alla novità, mirava soprattutto all’estetica dei contenuti, alla novità del linguaggio, all’introversione esplorativa. C’era, inoltre, una grande libertà creativa, che ti permetteva di conservare la tua integrità, senza voler per forza vendere l’anima per assomigliare a qualcun altro, come oggi, con il risultato di appiattire integralmente ogni cosa e mandare in crisi l’industria del disco.
M.F. Nella parte finale degli anni settanta hai condiviso esperienze di palco con molti artisti in seguito esplosi al grande pubblico; uno su tutti Vasco Rossi. In cosa ti sentivi e ti senti accomunato con Vasco?
A fine anni ’70, stavo facendo un tour negli stadi con i Pooh, come supporter. Mi arrivò una telefonata da Bibi Ballandi che mi propose una ventina di date nei locali più importanti del nord Italia (Picchio Rosso, Picchio Verde, Ca’ del liscio, Caravel, Jumbo, ecc.) insieme ad un ristretto gruppo di nuovi cantautori (Vasco Rossi, Alberto Fortis, Marco Ferradini, Vincenzo Spampinato, Francesco Magni, Mario D’Azzo e Teresa Gatta), a cui si aggiunse anche Renzo Zenobi per qualche tappa. Il tour si chiamava “Primo Concerto”. Lasciai immediatamente la situazione Pooh, che fra l’altro andava anche molto bene, e intrapresi questa nuova avventura. Sviluppai subito una simpatia spontanea con Vasco, col quale facevo sempre comunella, tanto da viaggiare spesso noi due soli, per conto nostro, accompagnati dal “celebre” Alfredo (Per colpa di Alfredo). Nei viaggi, facevamo grandi discorsi sul rock e gli mostravo dei riff di blues su una chitarra che tenevamo in macchina, convincendolo ad abbracciare questa nuova “religione”. Nei momenti liberi, accompagnavo Vasco alla discoteca Snoopy di Modena, dove lavorava come D.J. e poi rimanevo a dormire al Modena Park, dove lui abitava. Un’esperienza molto bella, un’amicizia molto forte che si è persa nel tempo, ma conservo sempre un grande affetto per questa persona con cui ci siamo dati così tanto.
M.F. La tua produzione discografica ha nel tempo avuto un dosaggio di lento ma costante regime: tempi creativi di un artista ed esigenze di mercato di una casa discografica, due mondi sempre in antitesi?
A parte la parentesi it/RCA, durata 7 anni, dove si programmava e pianificava ogni uscita discografica, dalle interviste alle serate promozionali, i miei dischi sono nati dall’esigenza di storicizzare i mie progetti live. Per me la dimensione dal vivo è fondamentale, amo suonare in giro, come credo accada a molti che fanno questo mestiere. Nei miei vari progetti ho sempre tratto ispirazione dal feeling che mi veniva dalla band con cui suonavo al momento, oltre naturalmente dalle cose della vita, e quindi, il fatto di registrare un nuovo disco, è stata sempre una conseguenza naturale, un fissare gli eventi per consegnarli alla storia.
M.F. Parliamo del tuo ultimo album “Le mutazioni del lupo” quale è il significato di questo titolo?
Il disco abbraccia tutto il percorso della vita di un uomo, dannazione e redenzione, attraverso gli occhi puri di un lupo. Avviene quasi una traslazione vera e propria tra la vita del nobile animale e l’uomo. Il cammino si svolge in modo naturale: inizio (il lupo che scende a valle), l’esperienza (l’interazione con la quotidianità dell’essere umano fra tormenti riflessioni e gioia) e la fine (il ritorno alla montagna). Il concept dell’opera è contenuto nella tredicesima traccia del disco, dove Francesco Pannofino legge l’intera storia, in un monologo intitolato “Il lupo”. Il senso di tutto si declina nel concetto di “più buia è la notte, più vicina è l’alba”, contenuto nella dodicesima canzone “All’improvviso la felicità”.
In un’altra prospettiva, questo disco può essere anche inteso come la metafora della carriera di un artista, attraverso le varie fasi del suo percorso creativo, dal tormento iniziale alla quiete dopo la tempesta. La band comprende alcuni tra i migliori musicisti italiani e internazionali della nuova generazione: Alberto Lombardi e Yuki Rufo chitarre, Simone “Federicuccio” Talone Percussioni, Marco Rovinelli Batteria, Primiano Di Biase Fisarmonica, Emiliano Pari Piano Rodhes Wurlitzer e Hammond, Pierpaolo Ranieri Basso, Mario Gentili Viola e Violino, Giuseppe Tortora Violoncello, Marco Rò Melissa Camponeschi e Conor McLain Cori, Francesco Pannofino Voce narrante. Arrangiamenti e produzione di studio Yuki Rufo, Riprese audio Corrado Taglialatela, Missaggi Stefano Quarta, Mastering Carmine Simeone presso Forward Studios, Grottaferrata.
M.F. Parliamo ancora del brano “il lupo” con la presenza straordinaria di Francesco Pannofino in un contesto direi molto teatrale come il reading; come è maturata la scelta di affidare a questo registro il peso del concept?
Con Francesco ho fatto tanto lavoro negli ultimi anni: un disco (Io vendo le emozioni), interviste, concerti, un’attività che va avanti da cinque anni… Nel nostro spettacolo di teatro canzone ho sempre goduto al suono della sua voce pensando che mi sarebbe piaciuto utilizzarla in un mio futuro lavoro. La sua timbrica scura era quello che mi serviva per dare quei toni di drammaticità non esasperata che il concept di questa opera impone.
M.F. Seguirà un tour promozionale?
Seguiranno delle presentazioni in provincia per poi approdare a Roma e, successivamente, in altre città.
M.F. Qualche battuta sui locali dove si fa musica e che non hai mai abbandonato. Come è cambiato nel tempo la loro funzione sociale?
Funzione sociale? Purtroppo la situazione dei locali è peggiorata notevolmente negli ultimi anni: una volta si riempivano naturalmente di persone che avevano voglia di divertirsi ascoltando musica con religiosa attenzione; oggi ti trovi davanti a gestori che ti chiedono “quanta gente porti?”… e a gente che, mentre esprimi la tua arte, mangia, beve e rumoreggia con tutta la dissacrazione possibile e immaginabile. Questo degrado è estremamente umiliante per chiunque si voglia esprimere.
M.F. Il Folkstudio dei nostri giorni è semplicemente una sterile piattaforma di condivisione virtuale o si può auspicare un ritorno al passato?
Un nuovo Folk Studio è nato a Roma già da otto anni. Al teatro Arciliuto, fra piazza Navona e via dei Coronari, io ed Ernesto Bassignano conduciamo uno show, “Per chi suona la campana?”, che vede impegnati quattro cantautori provenienti da ogni angolo dello stivale tutti i lunedì sera. Ognuno di loro propone, in uno showcase dal vivo, quattro brani del nuovo disco. Sono passati da noi, negli ultimi anni, almeno seicento fra artisti bravi e meno bravi, conosciuti e meno conosciuti. Ce ne sono alcuni dotati di un talento fuori dal comune, a dimostrazione che l’ambiente artistico è tutt’altro che carente, ma viene tenuto in ombra dallo show business che, purtroppo, tende a saturare il mercato con proposte sempre più insignificanti. È in atto, quindi, un vero e proprio ritorno al futuro ignorato dai media, i quali, invece d’investire sulle novità interessanti e significative al fine di creare un nuovo entusiasmo musicale, preferiscono inquinare il mercato con le loro proposte vuote e scadenti che, non solo, fanno calare le vendite della musica, ma, ancora più grave, inducono la gente a una degradante povertà culturale.