Speciale incontro con Dave Grusin e Lee Ritenour, giganti americani che hanno segnato la svolta del jazz, dalla tradizione alla modernità
di Davide Iannuzzi
Di recente lo storico sodalizio artistico tra Dave Grusin e Lee Ritenour è tornato a far parlare di se per una serie di concerti e master class che hanno fatto tappa anche in Italia. Tecnica strumentale, jazz e music bussines, temi che non potevano essere elusi vista la caratura titanica di due giganti che si sono confermati autentici gentleman; l’ultra ottantaenne Dave Grusin, raffinato pianista e compositore nonché esperto creatore di canovacci estetico formali della settima e dell’ottava arte e il sessantottenne Lee Ritenour, polimorfo chitarrista di jazz e suoi derivati. In due hanno prodotto circa ottanta album, alcuni dei quali in compartecipazione e collezionato innumerevoli collaborazioni nel mondo del jazz, del pop rock e del soul interagendo talvolta con produttori di primissima fascia come Quincy Jones. Analizzare più da vicino la loro simbiosi artistica – che si formalizza nel 1985 con la pubblicazione di quell’album a firma congiunta intitolato Harlequin e che fruttò un Grammy Award significa dare profondità a quel loro essere singolarmente radicati nell’humus della cultura afroamericana con le sue possibili e trasversali declinazioni che in più di un caso nella storia hanno significato perfetta complementarietà fra le parti. E’ allora il caso di ricordare che Dave Grusin originario di Littleton nel Colorado e formatosi musicalmente alla University of Colorado College of Music, sotto la guida di insegnanti quali Cecil Effinger e Wayne Scott ha alternato alla carriera di compositore di colonne sonore cinematografiche e televisive quella di produttore discografico in particolare dopo aver creato con il suo amico e socio in affari Larry Rosen il marchio GRP nel 1982 al servizio di artisti come Diane Schuur, David Sanborn, Al Jarreau e molti altri ancora e mutata nel 97’ in M2K ENcodet Music specializzata in smooth jazz. Il modello orchestrale acquisito delle big Band ispirato da Gerswin ed Henry Mancini nonché il costante impegno nella creazione di linee melodiche al servizio delle immagini accostano Grusin a un’esperienza musicale più estetica e meditativa di accezione europea. Diversamente Ritenour cresciuto a Los Angeles subisce l’influenza dei grandi Boppers e guitar hero dall’impeto improvvisativo, seppur mantenendo intatto quel profilo classicistico e filo-romantico a cui ancora oggi ama ricondurre la sua essenza. Entrambi si incontrano a metà strada d’accordo su un paio di concetti base; usare un lessico comprensibile in un contesto colto basato su uno spiccato senso melodico e saper raggiungere con facilità anche un pubblico di non musicisti. Grusin esalta il valore di un tema, essendo compositore di colonne sonore. Lee opera un lavoro di sintesi del jazz, ricercando proprio nella riconoscibilità del tema la sua principale caratteristica. Su questa base abbiamo ritenuto interessante conoscere da vicino Lee Ritenour e Dave Grusin considerati in modo non poco prevedibile alfieri dello Smooth jazz, affiliazione fin troppo didascalica ma alla quale era forse impossibile che sfuggissero. Con qualche ora di anticipo prima dell’inizio delle rispettive master class e del concerto serale (sul paco anche l’esperto Tom Kennedy al contrabbasso e il giovanissimo e talentuoso Wesley Ritenour figlio di Lee alla batteria) si concedono alle domande di Mediafrequenza. Dave concede maggior campo al suo amico ma, benché appaia visibilmente provato dalla sua stessa età non tradisce il suo aplomb.
Lee, ti sei affermato musicalmente che eri giovanissimo nella Los Angeles degli anni 60, puoi raccontarci qualcosa circa il tuo percorso formativo?
L.R. Sono cresciuto nei tardi anni sessanta, presi una chitarra in mano quando avevo otto anni e cominciai ad amarla e ad appassionarmi molto presto . Avevo dei genitori che mi incoraggiavano molto. Mio padre mi aiutò a trovare il miglior insegnante, mi esortava a suonare anche il piano e iniziò a farmi conoscere il jazz quando avevo circa 11 anni con i dischi di Wes Montgomery e Joe Pass e presto iniziai ad amare tutti i tipi di musica; ascoltavo jazz, rock, la classica e amavo chiunque suonasse bene la chitarra. Gli ultimi anni sessanta e gli inizi degli anni settanta furono fantastici per la chitarra perché c’erano delle leggende in ogni campo come Jimy Hendrix, Jeff Beck, Eric Clapton nel rock, B. B. King nel blues, Joe Pass , Wes Montgomery, kenny burrell, Chet Atkins nel jazz, Segovia nella classica… .. ho amato diversi tipi di musica che mi hanno guidato nel mio percorso di studio e nelle mia carriera.
Dave raccontaci qualcosa di te in proposito
D.G. Mio padre era pianista e mia madre violinista, non ho rischiato di diventare avvocato. Ho studiato allo University of Colorado College of Music dove ho conferito la laurea nel 1956 e ho avuto la fortuna di incontrare grandi insegnanti come Cecil Effinger, Wayne Scott Storm Bull.
Di questi insegnanti c’è stato qualcuno che ha inciso più profondamente?
D.G. Storm Bull è stato mio professore di piano che fu allievo di Bela Bartok che è poi diventato il mio compositore preferito assieme a Bach.
Cosa in particolare ti ha colpito di questi due grandi compositori?
D.G. Di Bartok mi è rimasto impresso il “Concerto n. 2 per violino e orchestra” e le sue composizioni per pianoforte, di Bach in generale la sua concezione della musica nella sua complessità strutturale come se si trattasse di un’opera architettonica in cui entrano in gioco elementi di vario genere.
Lee, una carriera la tua come solista e session man con oltre 80 album, attivo come produttore e un palmares pieno di prestigiosi riconoscimenti, puoi dirci cosa significa per te trasferire le nozioni del mestiere al mondo delle master class, quanto ti arricchisce interiormente questo tipo di attività?
L.R. Non ci sono particolari trucchi, bisogna studiare a lungo, per acquisire una buona educazione musicale . La miglior assicurazione per un musicista è studiare tanto, esercitarsi , con un insegnante, per conto proprio attraverso internet, suonare con altri, seguire lezioni nelle scuole; fare qualsiasi cosa possa aiutare a crescere. Possibilmente studiare ogni tipo di strumento, la teoria, l’armonia, la musica classica. Mi ritengo un musicista classico per educazione e la musica classica è alla base del mio percorso musicale . Ho una fondazione che si chiama Six Srings Theory ed è una competition a livello mondiale. Ho cercato di dare agli studenti quello che potevo. Ho collaborato con la Yamaha corporation che offre una formazione molto completa. Mi ha reso una persona migliore, un musicista migliore. Sono a quasi quaranta anni di carriera e offrire questi doni a giovani chitarristi è qualcosa che mi ha riempito molto.
Le nuove generazioni hanno a disposizione una gran quantità di materiale didattico per non parlare delle possibilità che offre il mondo del web. Cosa cambia concretamente rispetto a un musicista come te che a disposizione poteva avere la radio e dischi in vinile di Wes Montgomey e Barney Kessel?
L.R. Oggi è molto diverso. Ho un figlio di 23 anni ( Wesley) che è cresciuto musicalmente con i moderni mezzi di comunicazione molto diversi dai miei. Ma non c’ è certezza che alla fine funzionino per chiunque. Penso che quando giovani musicisti traggano vantaggio da tutti i modi di imparare questo ottimizza i tempio di crescita. Ci sono molti più musicisti di talento fra gli adolescenti che a soli venti anni poi suonano in modo incredibile. E strano che poi la crescita continui solo per alcuni. Tali mezzi ti aiutano in una crescita a lungo termine ma la corsa per diventare musicisti a vita non è la stessa. C’è molta più visibilità per i giovani studenti che possono mettersi in mostra su you tube, social meedia e simili e ci sono tanti giovani musicisti di talento con cose forti. Al mio concorso al Sixty Theory quarantacinque Paesi hanno partecipato lo scorso anno e gente da 170 paesi hanno visitato il sito. Questo ti da l’idea di quanto il talento sia distribuito in tutto il mondo . In passato nel Jazz, rock e Blues l’America era una specie di ombelico. C’era gente forte in Francia, Italia , Brasile ma ora questo succede in tutto il mondo. Vedi musicisti incredibili nell’Europa dell’Est, in Asia, Sud America e un pò in tutta Europa e c’è più competizione che mai ora.
Dave, parlando ancora di orientamento e formazione quanto è importante che nella vita si incontrino le persone giuste?
D.G. Per me lo è stato quando studiavo al College ma poi credo che la mia vita artistica sia stata un pò come una palla di flipper o come una foglia mossa dal vento che andava un dove voleva il caso senza nessun controllo esercitato su di essa. In realtà non ho mai avuto la sensazione che la mia carriera dovesse obbedire severamente a un progetto stabilito. Tutti poi nella vita ci ritroviamo a fare una selezione delle persone che incontriamo e dobbiamo essere bravi a scartare quelle che possono interferire negativamente. Spero che le persone che verranno oggi alla mia master class possano poter dire di aver incontrato una persona positiva, anche perché il mondo del cinema ha bisogno di loro, di nuova linfa vitale ed è bello veder crescere nuovi bravi compositori.
Dave, a gran parte della tua produzione musicale è stato dato un marchio di fabbrica sotto il nome di smooth jazz di cui la GRP ne fu principale divulgatrice. Riconosci il lavoro da te svolto in questa definizione?
D.G. Beh, visto che la cosa riguarderebbe anche Lee preferirei che sia lui a rispondere, ah, ah..
L.R. Ok, proverò a spiegare. Lo smooth jazz è diventato un problema per il jazz contemporaneo. Cercando di riassumere velocemente la storia, quando gente come me, Dave Grusin, Bob James, David Sambrn oppure lo stesso Miles che diede inizio alla fusion venendo dal be bop entrando in quella specie di blue period in cui si portavano elementi nuovi, tutti introducemmo suoni e ritmi contemporanei. Poi arrivò la musica brasiliana, la word music con Pat Meteeny, Joe Sample, Kenny Washinton che negli anni settanta cambiarono il suono. Eravamo musicisti jazz e interplayer. Abbiamo quindi continuato su questa linea. Cosa è accaduto poi allo smooth jazz? E’ diventata una espressione di marketing, gente della radio lo ha reso commerciale per vendere un suono più semplice, easy, più smooth. Musicisti come me e Pat Meteeny ne abbiamo colto alcuni elementi , ma non ci consideriamo musicisti di smooth jazz. Altri ci hanno attribuito questa etichetta. Lo smooth è diventato molto diluito. In America è qualcosa che non attrae le giovani generazioni.
In ogni caso si può affermare che il tuo guitar playng dia maggior enfasi alle linee melodiche fatte di sonorità più rilassanti rispetto alle timbriche più tradizionali della fusion e del rhythm and blues…
L.R. Ho sempre amato la melodia nelle mie composizioni. Naturalmente il suono della mia chitarra nelle registrazioni è caldo e sofisticato. Ricercato.
Tornando a Wes Montgomery il compositore e direttore d’orchestra Ghinter Suller disse “Ascoltare la chitarra di Wes Montgomery crea lo stesso brivido che provi quando barcolli sull’orlo di un precipizio…” hai un modo per descrivere la sua musica, da cui parte il tuo stile?
L.R. La mia Impressione su Wes è la stessa di quando lo ascolto meravigliandomi ancora oggi. Mio padre mi comprò tre dischi, uno di Wes, uno di Joe Pass e uno di Howard Roberts, un chitarrista famoso in quel tempo a Los Angeles. Ma Wes era molto di più. Mia sorella aveva un piccolo altoparlante per ascoltare musica. Quando ascoltai Wes in quel disco il suono saltò fuori in modo così potente che mi fece una profonda impressione. Questa cosa mi spinse a cercare un suono specifico per la mia chitarra, come una meta da seguire per tutta la vita, sia quando avrei suonato dal vivo che nei dischi nelle collaborazioni. Un’alta cosa che lo riguarda è che i suoi soli erano addirittura migliori delle melodie. Eppure le sue melodie erano belle. Le sue improvvisazioni erano pure sinfonie. Il suo modo di svilupparle nel jazz è stato per me una grande ispirazione . E lo è per me ancora oggi. Poi quando registrai il mio disco dedicato a lui nel 93 intitolato Wes Bound fui ispirato a dedicarglielo per il ruolo che egli ha avuto nel mio stile e tutt’ora ha.
Ho sempre pensato che un album come “Stolen Moments” segnasse un punto di distacco dai precedenti lavori in cui si era affermato un tuo personalissimo stile moderno e anche molto elettronico, per lanciare lo sguardo alla storia. Eppure nella sua fedeltà stilistica “Stolen Moments” sembrava voler raccontare qualcosa di moderno. E’ solo una mia sensazione?
L.R. Facemmo quel disco abbastanza unico nel suo genere che fu mixato durante la registrazione. Eravamo alla fine del periodo in cui si registrava ancora su nastro. Poco dopo iniziò l’era del digitale e secondo me quel disco ha davvero un bel suono. C’erano Harwey Mason, John Patitucci, Ernie Watts, Alan Broadbent, tutti ospiti speciali. Fu molto importante per me perché stavo lasciando la jazz fusion contemporanea e mi stavo aprendo al jazz più tradizionale attraverso il mio personale sguardo.
Dave oltre alla nota passione che hai sempre avuto per Gerswhin, Duke Ellington e Henry Mancini quali alti musicisti contemporanei ti hanno maggiormente influenzato?
D.G. Forse Frank Sinatra? Ah Ah! Mi interessano quei musicisti che non perdono il gusto di rinnovarsi continuamente di rimettersi in discussione, Shostakovich e Prokof’ev sono due compositori in cui ho ritrovato queste caratteristiche.
A differenza di Lee sembra evidente che il tuo rapporto con il jazz sia caratterizzato dalla storia antecedente alla nascita del be boop…
D.G. Può essere ma dobbiamo ricordare che le big band di un tempo avevano una funzione diversa da come oggi si tende a celebrarle. In realtà erano al servizio della cultura pop, di gente che frequentava i locali perché voleva divertirsi. La percezione delle cose nel tempo cambia, che si parli di be bop, ragtime o altro.
Lee cosa hanno rappresentato per te la scoperta del be bop e il mondo della musica brasiliana?
L.R Un’altra ondata di musica in America fu l’arrivo di Jobim, Stan Getz e Joao Gilberto, arrivati in America e fu un grande successo mondiale. Amavo questi ritmi e conibciarono ad entrare nella mia musica. Un grande musicista di bossa nova , Joao Gilberto. Attraverso lui vidi un altro Brasile in musica, Poi conobbi Oscar Castro-Neves che fu a lungo il chitarrista di Sergio Mendes e andai in Brasile in età molto giovane. Nella mia carriera ho collaborato con Caetano Veloso, Ivan Lins, Javan, grandi musicisti. Sono poi tornato in brasile dove abbiamo comprato dei terreni. Il be bop fu una sfida, ho cercato di capirlo per tutta la vita e di incorporarlo nella mia musica. Imparai jazz, rock, classica ma sentivo il bisogno di una voce mia per la mia chitarra . C’erano tanti nomi, Barnie Kassel Jimmy Hall, Kenny Burrell, grandi chitarristi jazz che suonavano be bop e capii che dovevo uscire da tutto questo per avere un mio stile personale. Certo ho avuto una lunga relazione con il be bop. Ci sono grandi aree del jazz che durano da tempo come i dischi di Davis negli anni novanta , un blue soud che sembra più fresco ora che un tempo.
Tornando alla tua formazione quali sono stati i maggiori contributi che hai avuto da Joe Pass e Christopher Pakening?
L.R. Entrambi molto. Mio padre aveva il telefono di chiunque nella sua agenda. Chiamava Joe Pass, Barnie Kassel e un giorno chiamò Barnie quando avevo dodici anni e mi diede una sola lezione, ma fu una grande lezione. Non poteva diventare il mio insegnante perché non aveva tempo, però mi raccomandò quello che riteneva essere il miglior insegnante per me, Duke Miller e che in affetti ebbe un impatto importante per tutta la mia vita. Lui mi svelò tutti i segreti della chitarra. Era innovativo e mi educò ad avere il mio personale chord book, a capire l’armonia. Mi aprì la mente a capire anche il music business. Barney fu determinante per conoscere Duke. Christopher era considerato il miglior chitarrista classico della sua generazione e Segovia stesso disse che era molto forte. Ho studiato con lui prima di andare all’università. E’ ancora mio amico. Non suona più dal vivo insegna all’università a Malibù. Mi indirizzò a personalizzare il mio suono. Quello che dovrebbero cercare ogni chitarrista.
Dave puoi dirci come gestisci i tempi di lavorazione di una colonna sonora?
D.G. Il foglio vuoto mi fa pensare che esiste una deadline e questo mi spaventa. Del resto anche Duke Ellington arrivava al limite dello stress prima di partorire l’idea migliore. Sarebbe interessante capire perché le idee migliori sono sempre le ultime.
Segui un particolare metodo di start up nell’incipit creativo?
D.G. Diversamente da quanto si possa pensare lo strumento di per se non è il miglior amico per creare una musica di commento alle immagini. Il pianoforte può condizionare perché distrae, è meglio non pensare sul pianoforte ma sullo score direttamente. Scrivo direttamente sulla partitura. Comporre sul pianoforte è come fare un semplice lavoro di inserimento dati. Il nostro lavoro come compositori di colonne sonore è manipolare l’ascolto . Dobbiamo tradurre in suoni quello che chiede il regista con le immagini. In realtà l’audience non deve ascoltare la tua musica, per quanto bella potrebbe distrarre dall’essenza del film. E senza rinunciare a cercare quello che soprattutto ci piace. Poi capisci che sei sulla strada giusta e speri che anche agli altri possa piacere.
In questo modo rinunciando allo strumento si apre la porta a muse ispiratrici provenienti da vari fronti...
D. G Non mi sono mai chiesto da dove venisse l’idea di quello che stavo componendo. Ma scrivere direttamente sulla partitura ha sempre funzionato ed è andata sempre bene. Mi son sempre divertito.
Lee guardando agli anni ottanta si nota come il tuo stile potesse flettersi velocemente stabilendo percorsi diversificati in pochi anni. Ad esempio album come On the Line e Earth Run potevano guardare con maggior intensità al rock rispetto a Portrait in cui si notano forti commistioni fusion e brazil, fino ai più acustici e brasilianeggianti Color rit e Festival. Tutto questo era frutto di una programmazione o di un sistematico abbandono istintivo?
L.R. Quello che è venuto fuori è la mia educazione musicale che comprende la mia curiosità riguardo agli stili di tutto il mondo, il desiderio di vedere come si trasformava la musica nel tempo seguendo il mio istinto. Ho realizzato oltre 40 album e tantissime collaborazioni grazie a questa mia attitudine.
Esiste un progetto che non ha ancora preso forma?
L.R. Una cosa che non ho mai fatto è un disco di sola chitarra. Mi ha sempre attratto questa cosa, però mi hanno sempre frenato i molti impegni famigliari, gli affari in brasile, i periodi festivi. Sto cercando di trovare il tempo per finire di scrivere e registrare. Questo progetto è una vera sfida perché sarebbe per me qualcosa di nuovo, e vorrei che sia speciale.
Parlaci dell’incontro con Dave Grusin e con la GRP
L.R. Avevo 16 anni quando ascoltai Dave suonare nei dischi Howard Roberts e cominciai a seguire le musiche dei tv show e le colonne sonore dei film che Dave componeva o quando suonava nei dischi di Howard, e qualche volta improvvisavo su quelle musiche meravigliose di Dave. Ero attratto dal suo lavoro. Finalmente lo incontrai quando stavo registrando con il mio amico Oscar Castro-Neves e Sergio Mendes. Sergio mi chiese di registrare con lui un paio di dischi . Ci fu una festa e incontrai Jobim e Dave Grusin. Così conobbi Dave che iniziò a coinvolgermi nei suoi progetti, mi parlò della possiblità di suonare al Baked Potato, famoso jazz club in California e diventammo amici.
Quale è stato l’elemento chiave che ne ha determinato il feeling artistico?
L.R. Penso che il piano e la chitarra non siano semplici da mettere insieme perché hanno lo stesso ruolo. Quando in un gruppo ci sono un chitarrista e un pianista nasce un sentimento simbiotico , ci si comprende reciprocamente. Sono sempre stato attratto dal modo in cui Dave riesce ad orchestrare tutto perché è un grande arrangiatore, orchestratore e compositore. Sia quando suona da solo che quando suona in gruppo arrangia continuamente, si assicura che la parte sia quella giusta e questo facevamo in studio sia per noi che per altri. Abbiamo lavorato con Quincy Jones che è un vero professionista, ma anche molto esigente. Io e Dave pensiamo alla musica allo stesso modo, ci siamo sempre compresi reciprocamente.
Sentire uno spirito jam come quello di Lee che parla di interplay mi fa pensare alla diversa impostazione che può avere un direttore d’orchestra più impostato sul manager trading. Dave come spieghi questo particolare feeling con Lee?
D.G. Ho sempre avuto un concetto della direzione orchestrale meno tradizionale fin dai miei trascorsi televisivi che risalgono al 1959 quando facevo The Andy Williams Show dove potevo contare su uno staff di arrangiatori che mi aiutavano fra cui Martin Page. C’erano questi musicisti che aiutavano lo staff a creare, erano degli incredibili orchestratori. All’epoca si lavorava in collettivo con grandi professionisti tra cui Billy May, Jack Elliot, Allen Ferguson, Dick Hazard, Johnny Mandel e Bob Florence. Spesso le orchestre non erano molto numerose e questo forse favoriva un clima di band.
Esiste un genere cinematografico dove la creazione della soudtrack richiede un’attenzione particolare?
D.G. Scrivere per una commedia potrebbe non essere semplice se si pensa che la musica debba essere sempre divertente. Musicalmente il tema deve poter essere divertente, ma non l’intera opera, è importante rispettare i momenti drammatici.
Puoi farci un esempio pratico dal suo lavoro?
D.G In “Tootsie” l’ispirazione del tema è nata nel vedere Dustin Hoffman vestito da donna. Il tema è divertente ma si appoggia su progressioni armoniche adattabili anche al drammatico. Da li puoi recuperare elementi con cui l’ascoltatore ha familiarizzato e declinarli diversamente nel corso del film. Mi ispirava il ritratto che Dustin cercava di rappresentare assecondando con la musica quel suo particolare ritratto. Il resto era musica di commento.
Cos’altro ritieni sia importante nel relazionarsi allo score di un film?
D.G. Le coordinate geografiche del posto in cui è ambientato, per capirne la cultura non solo del paese ma anche il posto che può essere influenzato da altre culture. Ad esempio se un film è ambientato nel New Mexico occorre tener presente l’influenza che in esso può avere la cultura spagnola. Mi piace quando nella musica ci sano elementi folkloristici soprattutto nella parte ritmica. Il tema deve incarnare quello che la gente sente e ne risulta qualcosa che unisce.
Esiste un film in cui il regista ti ha richiesto particolari attenzioni?
D.G. In “The Firm” di Sidney Pollack in parte ambientato nelle isole Cayman. Il regista mi propose una score ispirata al blues, genere che amo molto. In realtà Pollack aveva frequentato a Memphis il B.B. King Jazz Club dove conobbe alcuni pianisti blues. L’idea fu quella di una score di solo piano che poi registrai in multi track, nel caso ne avesse poi preferito una versione orchestrale. Questo fu un esempio diverso dalle score di “Tootsie” e molti altri film in cui ebbi carta bianca in tutto.
Lee il mondo del jazz ci ha spesso regalato matrimoni artistici longevi. Potremmo definire questa simbiosi tra te e David come quella creatasi tra Pat Metheny e Lyle Mays?
L.R. Penso sia un bel paragone per i percorsi artistici che abbiamo in comune. La loro fu una miscela incredibile. Lyle ha lasciato la musica molto giovane, non produce più, cosa che ho trovato molto sorprendente . L’ho incontrato un paio di volte. Credo che ci siamo molte zone della sua vita interessanti che mi incuriosiscono. Pat e Lyle non hanno avuto lo stesso feeling di me e Dave ma credo che il loro fu un binomio davvero magnifico
C’è un tuo album a cui ti senti maggiormente legato, e perché…
L.R. Ci sono periodi differenti, Capitan Fingers era veramente forte, Harlequin con Dave, Stolen Moments, Festival con Veloso e Wes Bound successivo alla nascita di mio figlio. Sixt String Theorys è stato molto importante per me e A twist Of Rit (di cinque anni fa) è stato molto diverso dagli altri perché è stato per me come un grande viaggio.
Chiudiamo con il tema della master class: quale consiglio daresti ai giovani che stai per incontrare, che essi vogliano intraprendere una carriera come solisti o di gruppo, oppure come session man?
L.R. Penso ci sia una grande competizione tra musicisti di tutto il mondo. Possiamo condividere le performance attraverso i meedia e conoscere nuovi talenti, in Russia, negli USA, in Corea, in Italia. Il segreto è creare il personal style, essere una copia di qualcun altro non è una buona cosa. C’è un solo Miles, un solo Harbie Hancoock, un solo Coltraine o anche Hendrix. Noi tutti abbiamo i nostri eroi, ma se il tuo suono è come questi non serve a nulla. Un’altra cosa importante è scrivere i propri pezzi, comporre la propria musica . E’ l’unico modo per distinguersi. Questo è l’indirizzo migliore che porta al proprio stile.
Dave esiste al momento un nuovo Dave Grusin?
Chissà forse proprio tra i partecipanti di questa master class. Per quanto mi riguarda sono cinque anni che non lavoro per il cinema. E non me ne frega niente.
Ringraziamenti speciali
Elisabetta Castiglioni
Fabrizio Ragonese
Daniela Norando