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DAVIDE MANCORI, LA SETTIMA ARTE E ALTRI SENTIERI/INTERVISTA

Dalla macchina da presa alla penna passando per la musica, l’autore di “Expiatio” ci accompagna nella tradizione dei Mancori, con lo sguardo volto a cambiamenti epocali e prospettive futuribili

di Davide Iannuzzi

Da poco pubblicato dalla Casa Editrice Kimerik “Expiatio” è il primo vero romanzo di Davide Mancori, uomo di Cinema e figlio d’arte che alla tradizione di un cognome indissolubilmente legato tanto allo Spaghetti Western quanto al miglior repertorio del Principe della risata, al secolo Totò, ha saputo sommare con eccellenti riscontri la scrittura e fin dalla sua post adolescenza la musica. Erano gli anni ottanta quando si assunse il rischio di sfidare la consolidata tradizione di famiglia imponendosi come DJ con lo pseudonimo Devil Dee percorrendo un sentiero che si sarebbe dimostrato più che una semplice deriva, o parentesi. Ma il richiamo più forte, quello della Settima Arte ha poi finito per caratterizzare il suo percorso più longevo dietro la macchina da presa, ricoprendo i ruoli di assistente ai grandi direttori della fotografia fino a divenirne lui stesso esperto rappresentante, ma anche in veste di producer spingendosi poi verso la letteratura. E la sua più recente opera non poteva, fin dalla prima lettura non sprigionare il retrogusto della sceneggiatura.

“Expiatio”, un racconto caustico, esoterico e antropologico, ci parli di questo romanzo appena pubblicato.

Nasce da un fatto di cronaca nera accaduto in Italia negli anni novanta nel quale si trova ingiustamente coinvolto come imputato un documentarista e produttore cinematografico romano . Egli da quando ne esce legalmente fuori decide di abbandonare il suo paese e di andare a cercare quella forma di conoscenza che per pura ingenuità egli aveva sempre ignorato. E così va alla ricerca di villaggi matriarcali e, passando per la Patagonia e il Giappone si ritrova in una scuola per geishe, per poi finire in un villaggio matriarcale nelle Filippine. Grazie a un missionario gesuita viene poi indirizzato alla Cina. Lui ha sempre con se il conforto di una donna che conosce solo telematicamente e con la quale si confida da prima che sorgessero i suoi problemi legali. Di lei egli conosce soltanto gli occhi, non sapendo nemmeno da dove si collega per poter interloquire con lui. Egli si troverà costretto ad andare via da un monastero di Labrang in Cina e va alla ricerca di un villaggio sperduto in Nepal. A questo punto la donna decide di unirsi a lui per guidarlo nella sua ricerca, ma in realtà si impadronirà dell’anima di questo uomo sottoponendolo a sevizie di ogni tipo, anche di carattere sessuale, per introdurlo nel concetto dell’accettazione e fargli conoscere livelli di se stesso a lui rimasti da sempre oscuri. Una forma di percezione maggiore verso la quale egli è condotto attraverso riti tribali in comunità matriarcali ancora esistenti in rare entità in tutto il mondo.

Non solo cinema nella sua vita, proviamo a ridefinire il DNA della famiglia Mancori

I Mancori nascono da mio nonno che era ferroviere e fu il papà di 4 figli. Fortunosamente il primo di questi, Alvaro, entrò casualmente nel mondo del Cinema attraverso i Laboratori Boschi di Roma, il principale nella capitale per sviluppo e stampa. Alvaro appunto che si occupava della camera oscura ebbe i primi contatti con i direttori della fotografia del periodo e si innamorò talmente tanto dell’idea di stare dall’altra parte della macchina da presa che iniziò a mettersi a disposizione come aiuto. In quel periodo era amico di Tonino Delli Colli con il quale andava in giro a bighellonare e a fare guai. Si delineò la possibilità di andare a fare l’aiuto operatore di un celebre direttore della fotografia. Siamo nel 1938. Da aiuto operatore passò ad assistente operatore e poi gli capitò di fare il suo primo film come operatore di macchina con Totò. Con il principe della risata ebbe una meravigliosa relazione di amicizia e stima che gli consentì, dopo qualche tempo di diventare direttore della fotografia dei primi film di Totò. Il Principe della risata aveva un serio problema alle retine che gli costò quasi la cecità, costretto a girare con importanti fonti luminose fino A 20 kw per via del fatto che le pellicole avevano una bassa sensibilità, dai 24 ai 25 ASA.

E come fu affrontato questo spinoso problema?

Alvaro e Totò svilupparono insieme un metodo che riduceva gli effetti nocivi della grande presenza di luce. E grazie a questo il loro sodalizio si allungò per circa 26 pellicole di cui Alvaro era direttore della fotografia e i suoi fratelli Memmo e Mario erano operatori, mio padre Sandro era invece l’assistente operatore. Quindi la famiglia Mancori copriva l’intero reparto operatori. Col tempo Alvaro divenne amico di Peppino De Filippo e alla fine degli anni cinquanta sviluppò l’idea della produzione, anche perché con il suo amico Peppino Amato andò da Padre Pio a far benedire nel 59′ la sceneggiatura de “La dolce vita” – e questo è raccontato nel film documentario di Giuseppe Pedersoli “La verità su La Dolce Vita” -, e nella sua mentalità imprenditoriale si sviluppò l’idea di creare un villaggio western. Così agli inizi degli anni ’60, a pochi chilometri del GRA su via Tiburtina iniziò a creare gli studi Elios, quelli che oggi sono ancora presenti come proprietà della famiglia Lombardo, dove girano Titanus e Mediaset. Nel ’63 concesse gratuitamente la struttura all’ancora sconosciuto Sergio Leone per quello che fu il primo film della triade del dollaro, appunto “Per un pugno di dollari”. Era considerato tra i migliori villaggi cinematografici d’Europa e io da bambino andavo a scorrazzare li e far guai alle troupe che lavoravano. La caratteristica principale del villaggio Elios era il fatto che fosse interamente arredato con il saloon corredato di roulette e pianoforte e illuminazione con lampade a gas. Totalmente innovativo. E io quando avevo 14 anni, grazie a mio padre mi introdussi in questo mondo. Partecipai alla lavorazione del film “Disposta a tutto” diretto da Giorgio Stegani con Eleonora Giorgi e il premio Oscar Bekim Fehmiu. Ma al momento mi limitavo a portare il caffè alla troupe.

E questo ci introduce a parlare del suo precedente libro “Tre mani di Cinema”, più che un semplice album di famiglia..

E’ un libro che che ho scritto con Giovanni Lupi e parla dei Mancori con focus sui direttori della fotografia, in quanto nasciamo tutti dietro la macchina da presa. Il libro nasce e si evolve da un’idea di un mio amico giovane editore che avendo visto una mia grande collezione fotografica mi ha suggerito di iniziare questo percorso di ricerca e di utilizzo di immagini inedite, che mi portato a rinvenire vecchie buste paghe appartenute a mio padre, buste paghe delle vecchie società degli anni sessanta, della Pea di Alberto Grimaldi che aveva prodotto Il Decamerone, i film di Frank Kramer , di Sartana, di Sabata, Indio Black , girati da papà. Così è iniziata una ricostruzione storica dei Mancori, in particolare su Alvaro e su Sandro, che nella narrazione incontro dopo sette anni dalla sua morte fino a parlarci e litigarci, come avveniva normalmente.

E quali sarebbero le ragioni delle liti?

Il fatto che io ad certo periodo della mia vita mi fossi avvicinato al mondo della musica, allontanandomi di conseguenza dal Cinema. Ciò gli fu molto poco gradito e così mi impose di non utilizzare il cognome Mancori, per non mischiare le due correnti. E’ un botta e risposta tra me e lui, un libro leggero che si legge in un paio d’ore, ricco di 78 immagini inedite dal 1944 al 1996. Un periodo storico per i Mancori entro i quali sono state realizzate le cose più importanti, e negli ultimi 15 anni sono presente anche io.

Daniele Nannunzi nella sua premessa del libro la definisce l’ultimo della dinastia dei Mancori. Esiste una scia storica che sta per scomparire?

Io ancora oggi mi ostino a eventi con proiezioni tradizionali coinvolgendo amici come Franco Nero, Enzo Castellari, Ruggero Deodato che da poco ci ha lasciati, proiezioni rigorosamente in 35 mm. Ho avuto la fortuna di fare quel tipo di Cinema in gioventù come assistente operatore, dove se non eri pienamente competente non potevi lavorare. Una rigidità che permetteva di esprimersi solo ai veri professionisti. Se andavi a fare l’assistente operatore nel Sahara ciò significava che eri in grado di smontare la macchina da presa e trovare il granello di sabbia che avrebbe potuto rigare il negativo. Le produzioni dovevano sapere di poter contare su persona di assoluta affidabilità. E mi ci sono voluti molti anni prima di passare da assistente operatore alla fotografia.

Vive a cavallo del grande passaggio dall’analogico al digitale, cosa si è perso principalmente in questa rivoluzione?

L’approccio al mezzo. Il digitale ha operato un processo di democratizzazione consentendo a molti di entrare nella settima arte, mondo misterioso finché c’è stata la pellicola. Oggi con troppa facilità ci si auto denomina regista, operatore e direttore della fotografia pur non avendo basi. E in un Paese come l’Italia che fino al termine degli anni settanta poteva esportare ogni anno trecento ambitissime pellicole con il suo inconfondibile Italian Style, tanto nello spaghetti western quanto nel poliziesco, oggi al netto di importanti firme come Garrone o Sorrentino questo non è più possibile.

Nel novero dei registi italiani buoni esportatori, oltre ai due nomi che ha citato dovremmo inserire il fenomeno Cortellesi. Cosa pensa del suo film “C’è sempre domani”?

Ho apprezzato molto il suo film pieno di tante belle idee, anche se da alcune recensioni lette mi era salito un certo scetticismo.

Ci sono ancora per le opere prime porte che si aprono sui mercati esteri?

A patto che ci siano veri professionisti a lavorarci. Il Cinema è un’opera corale, e i rapporti che devono funzionare non possono ridursi a quelli tra regia, costumi, direzione della fotografia, sceneggiatura. Tutti i reparti devono insieme creare una potente sinergia e questo in Italia non è molto recepito

Davide Mancori in veste di Devil Dee alla consolle. (L’ALTRO MONDO STUDIO – Rimini 2022)

Una sua frase toccante alla fine del libro “rimangono questi rimpianti quando un genitore muore, non aver fatto tutto il possibile”

Mai come oggi sento quanto siano state importanti le sue parole e i suoi consigli. Forse se gli avessi dato più retta avrei commesso molti meno errori. Ma questo credo che capiti in qualsiasi generazione. In un mondo che va ad a elevata velocità e che fa perdere i dettagli anche i miei figli dovranno scontrarsi con una realtà fredda e cinica.

Dove si sta dirigendo il Cinema, verso una collisione o verso nuove aperture?

Il Cinema vero va verso una fase di estinzione, così come è accaduto per scultori e pittori. Si continuerà certamente a narrare, ma per il piccolo schermo. Le sale cinematografiche diverranno luoghi per amatori come lo sono i musei. Una visione forse personale e pessimistica ma corrispondente a un destino ineluttabile. Del resto questo è accaduto anche alla musica e a molti dei suoi poeti che si sono battuti per divulgare messaggi di pace. E non posso a questo riguardo non citare tra essi uno dei miei preferiti di sempre, Roger Waters, che ho conosciuto e intervistato in occasione dell’inaugurazione del monumento dedicato a suo padre Eric Fletcher, morto come molti sanno durante lo sbarco di Anzio.

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