Incontro con lo storico chitarrista di Roberto Vecchioni che di recente ha pubblicato il suo terzo album solista intitolato “Qualcosa di familiare”, per la prima volta anche in veste di vocalist
di Davide Iannuzzi
Ha cavalcato la storia della migliore canzone d’Autore al fianco di Roberto Vecchioni per oltre un ventennio, e poi collaborando con un firmamento di prestigio che tra gli altri annovera Grazia Di Michele, Rossana Casale, Nicola Di Bari, Cecilia Chailly, Giorgio Faletti. Musicista ad ampio spettro espressivo Massimo Germini ha negli anni saputo consolidare il suo talento come performer di palco e session man da studio grazie alla sua profonda competenza strumentale che parte dalla chitarra per poi allargarsi ai cordofoni di antica tradizione, passando per il mondo ellenico fino a spingersi verso la sacca orientale dei suoni del deserto e al sudamerica. Il musicista nativo di Limbiate in Brianza ha pubblicato la scorsa estate il suo terzo album solista in cui ha deciso di approcciare alla materia vocale, interpretando gli affreschi poetici dipinti dai testi di Michele Caccamo. Un disco che si compone di undici tracce, costantemente in bilico tra cultura popolare delle terre baciate dal Mediterraneo e improvvisi slanci verso mondi lontani. Nell’intervista rilasciata dal musicista a Mediafrequenza si parla di esegesi di un disco, di alchimie autorali ma anche di esperienze umane che tendono ad accrescere lo spessore di chi per mestiere ha scelto di dare ‘voce’ al proprio bisogno espressivo.
Un lungo percorso artistico al servizio del più prestigioso firmamento della musica italiana, poi arriva il momento di apporre una firma sul terzo disco da solista. Come sono andate le cose?
In effetti era già accaduto in precedenza, nel 1997 con “Fuoco”, nel 2010 con “Corde e martelli” poi rimasterizzato, e poi quest’ultimo. La novità vera è che in questo disco canto in 6 pezzi a differenza dei precedenti lavori realizzati esclusivamente in chiave strumentale. Ho deciso di cantare perchè durante il loockdown ho scritto diverse canzoni, non solo con Michele Caccamo che mi spediva i testi, ma sono state le sue che ho provinato con la mia voce, oltre che con la mia musica, e che poi gli ho rispedito. L’idea era quella che a qualcuno potessero interessare. Michele le fece ascoltare ad alcuni suoi amici come Claudio Baglioni, Grazia Di Michele che è anche una mia amica con la quale lavoravo nei primi anni novanta. Alla fine, a partire da Caccamo tutti mi dicevano: “perchè non le canti tu? Guarda che sei credibile”. Alla fine ho acquistato sicurezza, anche perché in realtà ho sempre cantato, come in alcuni spettacoli teatrali che sto tenendo attualmente. Infine anche il mio produttore Lele Battista mi ha rassicurato.
Accennavi ad alcune tue performance vocali in teatro, puoi parlarcene?
Ho scritto otto canzoni che canto io in scena per uno spettacolo teatrale, e sto lavorando anche a uno spettacolo con Lucio Fabbri dove canterò altre canzoni. Insomma alla soglia dei 60 anni mi sono messo a cantare, l’importante è suscitare delle emozioni, questo è l’obiettivo di chi fa il mio mestiere. E devo dire che mi sto anche molto divertendo.
In questa tua nuova veste di vocal performer qualcosa c’entrano le tue frequentazioni con Giovanni Nuti e in generale con il mondo della poesia?
Si certo, c’entra un pò tutto quando si lavora con tanta gente, poi ci si ritrova a imparare qualcosa da tutti, anche se il mio vero mentore resta Vecchioni. A lui devo i consigli più utili e la sicurezza che mi infonde. Quando facciamo le prove non sempre lui è presente, e quindi sono io a sostituirlo nel cantare. Sono tutti i personaggi che stimo ad avermi dato dato sicurezza.
Dalla scomparsa di De André in poi cosa ha perso e cosa ha guadagnato la canzone italiana d’Autore?
Trovo che siano cambiate le regole del gioco, il che non è una cosa necessariamente negativa. Io appartengo a una scuola cantautorale classica, ma certo i gusti dei ragazzi sono cambiati, è cambiato il modo di scrivere, hanno fatto la loro comparsa il rap e la trap. Qualcuno sostiene che la vera tradizione sia iniziata alla fine degli anni sessanta e si sia conclusa con gli anni ottanta. Molti oggi non ci sono più e altri si sono ritirati come Fossati e Guccini. Ci sono poi emuli di tutto rispetto, una scuola romana interessante come Silvestri, Gazzè, Fabi anche loro cinquantenni.I più giovani non che non siano bravi, ma fanno altre cose. Ma tra i giovani puoi trovare il ricercatore appassionato. Nel mainstream è cambiato il linguaggio, ma questa non è necessariamente né una perdita, né una conquista, è giusto così. Personalmente preferisco com’era prima, con album come “Anime salve” di De André che non si sono ripetuti.
Cosa consiglieresti di ascoltare della produzione contemporanea riguardo ai cantautori tradizionali?
Consiglio l’ultimo di Vecchioni che si intitola “L’infinito” che conserva molto di quello spirito di tradizione. Tra l’altro non è uscito in streaming, e come supporto unicamente fisico finora è andato molto bene avendo superato le 30.000 copie vendute, nelle due versioni cd classico e deluxe, quest’ultima con allegato un libretto molto interessante.
Ami di più definirti chitarrista, musicista o autore?
Mi piacciono tutte e tre le dimensioni, anche se quella di autore mi solletica di più. Ma devo dire che anche la dimensione di chitarrista accompagnatore mi da molta soddisfazione, soprattutto quando suono con Vecchioni, con il quale tra l’altro stiamo tenendo degli spettacoli in duo. Adoro in generale la musica, che mi piace in tutte le sue forme.
Cosa ti piace invece del sentirti più in generale musicista?
La possibilità di poter suonare altri strumenti, sempre della famiglia dei cordofoni come il mandolino che considero il mio secondo strumento e che fa parte anche della tradizione classica oltre che della scuola popolare, avendolo usato Vivaldi e Beethoven, il bouzouki della scuola greca e il charango di quella sudamericana. Quando ho uno strumento in mano è come se giocassi fino a perdere la cognizione del tempo.
Parliamo del tuo ultimo album “Qualcosa di familiare” in cosa ti sei sentito accomunato con l’autore dei testi Michele Caccamo?
Intanto vorrei citare Gaber che diceva “non canterei mai qualcosa che non mi rappresenti”, poi devo dire che mi sono trovato molto a mio agio con il metodo di lavoro, in quanto lui mi forniva dei testi compiuti e io potevo musicarli, e questo ha permesso al disco di avere un sottile fil rouge che attraversasse l’album dall’inizio alla fine, evitando di fare una specie di collage, nel caso in cui ci fossero stati più autori di testi. Mi piace molto la sua intensità poetica che si sviluppa sul tema dell’amore tormentato e abbellita da metafore molto fuori dal comune. Era sicuramente il materiale più colto che ho avuto a disposizione per procedere alla composizione e agli arrangiamenti.
Tra i brani dell’album ho apprezzato molto “Per Marino”, con la sua linea melodica impattante e riconoscibile, con un finale che strizza l’occhio all’Oriente: qual’é il punto di equilibro tra cultura mediterranea e altri mondi?
Alcuni hanno osservato che le mie soluzioni chitarristiche ricordano in parte Pino Daniele, e questo è vero perchè Pino è un artista che ho amato molto. Può essere che io inconsciamente produca cose che ricordino i miei ascolti, che comprendono anche il progressive anni settanta oppure la vulga etnica. E spero che tutto questo sia un bene.
Circa due anni fa ti sei lanciato nel mondo della canzone civile e di impegno politico per l’album di Rossella Seno “Pura come una bestemmia”. Che tipo di sfida è stata?
Rossella ci tiene che la canzone abbia un valore sociale, ed è lei che ha scelto tutti i temi che hanno poi sviluppato vari autori tra cui lo stesso Caccamo. Musicalmente parlando ho cercato di dare un vestito coerente al contesto generale del disco senza dover rinunciare al mio stile. Mi è stato detto che si sente nell’arco dell’intero ascolto che sono io a suonare, e questo lo considero un complimento, perchè significa che c’è uno stile musicale ben preciso.
Sempre in tema di impegno civile parliamo della tua collaborazione al progetto di Franco Mussida per portare la cultura musicale nelle carceri…
Come dico sempre c’è un prima e un dopo, e quell’esperienza mi ha cambiato la vita, più come uomo che come musicista. E’ stato arricchente avere a che fare con persone disperate che vivono una morte civile e scoprire che sono persone come noi, in alcuni casi semplicemente sfortunate per aver fatto scelte di vita che le hanno poi portate lì dentro. Ricordo un detenuto nel carcere di Monza mi disse:”…dai, così puoi dire in giro che non siamo esseri con due teste…”, e in effetti di questo si tratta, di persone normali che potrebbero essere chiunque, anche il nostro vicino di casa, anche molti di loro che sono ergastolani.
Parliamo del progetto teatrale sul tema dell’accoglienza
Si ne avevo accennato prima. Il titolo è “Ogni luogo è un dove” ed è un progetto sviluppato con Marco Aime che è un famosissimo antropologo, autore dei testi. Siamo in scena io e lui e c’è un’attrice che si chiama Eleni Molos come voce narrante. Il concept consiste nella consapevolezza che siamo, o siamo stati tutti emigranti, con una drammaturgia molto emozionante, accompagnata da otto canzoni di cui sei le canto io e due Eleni. La particolarità è che canto sulle basi, questo perchè volevo che non si perdessero i particolari degli arrangiamenti. Poi ci sono dei sottofondi con il bouzouki che eseguo su alcuni momenti del parlato di Marco e Eleni.
Torniamo a Vecchioni; esperienze comuni non solo in musica ma anche dietro una cattedra universitaria. Qual’é il punto di continuità?
Beh dietro la cattedra si parla comunque di canzoni e di musica. Il contributo è quello di accrescere l’interesse verso la musica, visto che mediaticamente parlando l’attenzione è generalmente rivolta ai testi. Questa unità di intenti ha fatto si che il nostro rapporto si consolidasse. Da parte mia è un continuo arricchimento personale, con lui orientato alla profondità intellettuale.