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BEATLES, ANCORA UN TUFFO IN “LET IT BE”

Viaggio esplorativo nel 13° album dei quattro di Liverpool che nel maggio del 1970 pose fine alla vicenda artistica degli “scarafaggi”

di Fabrizio Ragonese

Andare o restare? Lasciare o resistere? Chi non si è mai trovato di fronte a questo dilemma, in qualsiasi campo della vita? Il vero problema a volte non è capire se mollare o no, ma quando farlo, e in certe cose, capire quando è il momento migliore per mollare tutto può fare la differenza tra una fine ingloriosa e un’uscita di stile. Nella musica, perlomeno, è sempre stato così e continuerà ad esserlo. Lo dimostra la storia dei Beatles, mica di gente qualunque. Lo scorso maggio è caduto il 50° anniversario dell’uscita di Let It Be, ultimo album del quartetto di Liverpool, costellato di aneddoti, curiosità, leggende, e chi più ne ha più ne metta. La genesi di quest’album, il più tormentato, sofferto e difficile dei Fab Four offre un prezioso spunto di riflessione sul tema iniziale.

Ma partiamo dall’inizio.

Più o meno intorno al ‘68, come disse Harrison, i rispettivi ego dei quattro letteralmente impazzirono, trasformando quella che fino ad allora era stata un’alchimia perfetta e apparentemente inossidabile in un’amalgama esplosiva fatta di rapporti tesi e reciproche insoddisfazioni ormai incancrenite, nonostante l’ottimo successo commerciale del White Album (il migliore in assoluto secondo me), che già lasciava presagire che qualcosa stava cambiando, visto che nel bel mezzo delle registrazioni Ringo abbandonò improvvisamente la band (per poi tornare dietro convincimento di Lennon) sentendosi schiacciato ed emarginato dal duo Lennon/McCartney e costringendo Paul a sedersi alla batteria per terminare la registrazione di alcuni brani (ad esempio Back in the U.S.S.R.), e questo segnò l’inizio del primo, vero, momento di crisi per i quattro, ma in realtà, anche se allora nessuno lo sapeva, quello era più che un momento di crisi come ce ne sono tanti all’interno di una band: era l’inizio della fine. In questa cornice, nel gennaio del ‘69, i Beatles capirono che dovevano fare qualcosa, che dovevano trovare nuovi stimoli, nuova linfa, nuove idee, altrimenti la situazione che si stava creando li avrebbe travolti con tutta la sua forza e loro ne sarebbero rimasti impantanati (giusto per capirci, in quel periodo anche Harrison annunciò di lasciare il gruppo, stufo di dover racimolare le briciole che il duo Lennon/McCartney gli lasciavano dal punto di vista compositivo, per poi tornare anche lui convinto dagli altri membri). E allora decisero, semplicemente, di tornare alle origini: niente più sovraincisioni, diavolerie da studio o sonorità ricercate; solo quattro ragazzi, ormai non più giovanissimi, che suonano.

In particolare, scelsero di registrare l’album in presa diretta, come agli inizi, forse nel tentativo di ritrovare proprio la freschezza e l’entusiasmo dei primi anni. Oltre a questo, progettarono di realizzare un docufilm non più negli abituali studi di Abbey Road ma a Twickenham, per documentare dal vivo la realizzazione dell’intero album, o almeno le parti più salienti, e infine un clamoroso ritorno dal vivo, dopo ormai due anni e mezzo di assenza dalle scene, usando però una cornice il più stravagante possibile; furono prese in considerazione diverse idee più o meno bizzarre, fra cui un concerto nel Sahara (idea scartata perché un eventuale viaggio in Nord Africa non era gradito a Ringo, visto il suo intestino irritabile) e un concerto su una nave da crociera, per poi virare verso il tetto della Apple a Savile Row. Ma questo, nonostante gli encomiabili sforzi, non fu sufficiente a stemperare un clima ormai divenuto tesissimo, come si nota chiaramente dalle riprese del film; celeberrimo il diverbio tra Paul e George su una determinata sezione strumentale, con George che alla fine sbotta “Non m’importa: facciamo così: suonerò qualsiasi cosa tu voglia che suoni oppure non suonerò affatto se non vuoi che suoni. Ogni cosa che ti farà contento io la farò”, emblematico dell’insofferenza reciproca sviluppatasi tra i quattro, momentaneamente interrotta solo dall’arrivo di Billy Preston, che portò una ventata di freschezza e giovialità cambiando totalmente il clima in studio, un po’ come quando arriva un ospite e vuoi fare bella figura, come dissero poi i quattro. Chissà come sarebbe andata se veramente Preston fosse diventato il quinto Beatle, com’è sempre stato chiamato da lì in poi….. Vabbe’, con i se e i ma non si fa la storia, lo sappiamo. Su questo torneremo dopo. Nel frattempo facciamo una veloce disamina sui singoli brani.

Two of Us

Concepita inizialmente come un rock più “energico” e vibrante, come si può vedere nel film, questa ballata acustica scritta da McCartney e registrata in tre sessioni è un esempio pratico di quel ritorno alle origini che era il faro guida dell’intero disco. Il testo, secondo i maligni, parlerebbe della fine preannunciata del rapporto tra John e Paul, diventato ormai burrascoso e insostenibile, ma in realtà, come chiarito successivamente dagli stessi coniugi McCartney, i due della canzone sono proprio Paul e Linda.

Dig a Pony

Quella che si sente sull’album è la registrazione proveniente dal concerto sul tetto del 30 gennaio 1969. Lennon non ebbe esattamente parole al miele per questo pezzo, visto che in una delle sue ultime interviste lo definì senza mezzi termini “un’immondizia”. Eppure è un gran bel waltz-rock, con un riff di chitarra accattivante accompagnato dal classico non-sense di stampo tipicamente lennoniano (anche se qui, come al solito, non mancarono quelli che un significato ce lo videro, intravedendo riferimenti sarcastici agli Stones e a Dylan). Che dire? Uno dei tanti esempi di pezzi apprezzati più dai fan che dallo stesso autore.

Across the Universe

Più che una canzone, un manifesto della produzione beatlesiana. D’altronde, lo stesso Lennon la giudicò come uno dei più bei testi che avesse mai scritto, se non il migliore. Per quanto mi riguarda, è una delle mie canzoni preferite in assoluto, un inno alla psichedelia cosmica che solo Lennon avrebbe potuto scrivere, anche se in realtà, come affermò qualche anno dopo, “le parole mi sono venute così, non sono il frutto delle mie capacità compositive, questa canzone si è davvero scritta da sola.” Genio assoluto. Sembra incredibile che sia stata pubblicata per la prima volta quasi due anni dopo la sua registrazione (pare per l’insoddisfazione di Lennon per le versioni registrate fino a quel momento), per poi essere ripubblicata su Let It Be pesantemente modificata da Phil Spector, che vi aggiunse una sontuosa sezione di archi e cori, non si sa quanto gradita dai Beatles, ma il fatto che nella versione Naked sia stata ripristinata la versione originale con solo chitarra e sitar è indicativo del bassissimo livello generale di gradimento verso il lavoro di Spector.

I Me Mine

Harrison lo descrisse come un “waltz heavy”, Lennon non la gradiva particolarmente (a differenza di Paul), infatti la suoneranno solo in tre (nel film lui la balla insieme a Yoko mentre gli altri suonano). Passerà alla storia come l’ultima registrazione in assoluto della band, la cui versione definitiva verrà eseguita pochi giorni prima della pubblicazione dell’album, anche questa in tre perché Lennon e Yoko erano in vacanza in Danimarca.

Dig It

Niente di particolare, un’improvvisazione fatta così per divertirsi e buttata dentro l’album per gioco, con un testo interamente composto di acronimi e nomi snocciolati un po’ a casaccio (FBI, CIA, BBC, B.B. King, Doris Day, Matt Busby, solo per citarne alcuni), un po’ per omaggio, un po’ per presa in giro come solo Lennon sapeva fare. Venne esclusa dalla versione Naked del 2003.

Let It Be

Questa non è una canzone, è un inno generazionale che trascende generi, stili, epoche, tutto. Eppure, come diversi altri capolavori firmati McCartney, anche questa non era affatto gradita da Lennon, che la giudicava troppo religiosa; le parole di coda di Dig It (“That was Can You Dig It, by Georgie Wood. And now we’d like to do Hark the Angels Come” cioè “Questa era Can You Dig It, di Georgie Wood. Adesso vorremmo suonare Hark the Angels Come”) secondo alcuni erano una presa in giro rivolta proprio a Let It Be per il suo carattere troppo spirituale, che a un irriverente e iconoclasta come Lennon doveva sembrare piuttosto indigesto. Uno dei brani che ha risentito di più delle rielaborazioni effettuate nel corso delle registrazioni, con numerose sovraincisioni fra cui fiati, archi, cori e il bellissimo assolo di Harrison, diverso da quello originale presente sulla versione Naked. Come racconta lo stesso McCartney, il brano era dedicato alla madre scomparsa dieci anni prima che gli era apparsa in sogno e che gli avrebbe rivolto delle parole rassicuranti, e anche se McCartney non è del tutto sicuro che avesse usato proprio l’espressione “let it be”, comunque il senso era quello di un messaggio positivo con la certezza che tutto sarebbe andato bene e quindi, semplicemente, lascia che sia. Let it be.

Maggie Mae

Poco da dire: una ballata tradizionale di Liverpool, considerata l’inno della città dalla popolazione e reinterpretata da Lennon. Il brano parla di una prostituta (secondo alcuni realmente esistita) che deruba un marinaio e per questo viene condannata da un giudice.

I’ve Got a Feeling

Una delle registrazioni provenienti dal leggendario concerto sul tetto della Apple, ennesimo sublime esempio di cosa poteva produrre l’unione di due mezze canzoni, se gli autori di queste mezze canzoni si chiamavano John Lennon e Paul McCartney. Ognuno canta la propria parte (fra l’altro con grande divertimento), e il risultato è un gran bel rock-soul molto accattivante in quella che è forse l’ultima vera collaborazione tra i due. Geniali fino all’ultimo.

One After 909

Un vecchio pezzo dei primissimi Beatles (allora Quarrymen) facente parte del repertorio live del Cavern Club, riarrangiato e leggermente accelerato fino a trasformarlo in un rock & roll molto spensierato e divertente.

The Long and Winding Road

Un altro pezzo che ho sempre considerato di una bellezza sconfinata, uno dei miei preferiti in assoluto. Questa ballata con forti influenze jazz, stando alle dichiarazioni di McCartney, è “una canzone triste che parla di ciò che non puoi raggiungere, quella porta a cui non riesci mai ad arrivare, una via che non ha fine”, il che significa che prima o poi nella vita arriverà il momento in cui avrai solamente voglia di ascoltarla. È stato uno dei brani che ha maggiormente risentito dell’influenza di Spector, che la modificò pesantemente aggiungendo diverse sezioni orchestrali, scatenando le ire di McCartney, che si infuriò per non essere stato interpellato in proposito, e che in seguito dirà di aver avuto il coraggio di ascoltarla solo una volta dopo le modifiche di Spector. Eppure negli Stati Uniti, una volta uscita in 45 giri nel maggio del ‘70, riuscì a vendere ben un milione e duecentomila copie in soli due giorni, diventando il ventesimo brano al numero uno delle classifica nella storia dei Fab Four. Radicalmente diversa la versione Naked, praticamente una ballata semi-acustica e molto più intima rispetto alla pomposa versione dell’album.

For You Blue

Un pezzo spensierato e allegro di Harrison che fortunatamente non venne scartato (come invece avvenne per molti altri pezzi poi confluiti nell’album solista All Things Must Pass, capolavoro assoluto dell’indimenticabile George), con un ottimo slide di chitarra eseguito da Lennon.

Get Back

Uno degli ultimi esempi di autentica collaborazione e simbiosi tra i quattro ragazzi di Liverpool, altra canzone dove si è detto di tutto e di più, in particolare sull’identità del protagonista Jo Jo, spingendo i più maligni ad affermare che fosse addirittura un transessuale, mentre McCartney ha sempre ribadito che si tratta di un personaggio totalmente inventato. Brano anche questo suonato con grande energia e divertimento dai quattro (sontuoso l’assolo di pianoforte elettrico di Billy Preston), registrato dal concerto sul tetto della Apple (ed eseguito 3 volte e mezza, tenendo conto anche di una prova iniziale), passerà alla storia come l’ultimo brano eseguito dal vivo dai Fab Four, dato che alcuni residenti degli edifici circostanti si lamentarono con la polizia del rumore e del fatto che il concerto non fosse autorizzato, mettendo fine all’esibizione. Verrebbe da chiedersi cosa avranno pensato quelle stesse persone quando si sono resi conto di aver interrotto l’ultimo leggendario concerto dei Beatles, ma questa è un’altra storia.

Nonostante l’ottimo riscontro di vendite del disco la critica, abituata com’era alla perfezione sonora dei Beatles, non prese bene l’idea di un disco in presa diretta: ci fu chi definì l’album “un triste epitaffio sonoro”, “una fine ingiusta” e altre cose che non sto qui a raccontarvi. La mia domanda è: ne siamo proprio sicuri? Da beatlesiano DOC quale sono, anch’io mi sono arrovellato il cervello a cercare di immaginare quello che avrebbero potuto fare i quattro se ci fosse stata la reunion che tutti i fan sognavano (appena sfiorata nel bootleg A Toot and a Snore in ‘74 con i soli Lennon e McCartney), ma se mi fermo a riflettere un attimo a mente fredda, ecco che torno al ragionamento iniziale; in certe situazioni la questione non è se mollare o meno, ma decidere quando è il momento migliore per farlo, perché tanto sai già che tutto ti sta portando in quella direzione. E una volta aver preso coscienza di questo, la cosa migliore è chiudere finché hai la possibilità di farlo con stile, in bellezza. E su questo, lo dico con il cuore in mano, i Beatles hanno fatto centro. Perché hanno capito che quello era il momento giusto per chiudere alla grande ed entrare definitivamente nella leggenda anziché passare il tempo a rincorrere i propri anni, a trascinarsi stancamente in qualcosa di cui loro stessi non erano più così convinti come prima, illudendo i fan che tutto stesse andando bene quando invece il malessere che li pervadeva stava corrodendo tutti i meccanismi che avevano funzionato così bene per anni, e che prima o poi li avrebbe portati a fare un passo falso.

Hanno deciso di abbandonare la nave prima che affondasse. Come disse successivamente Lennon, hanno capito che erano cresciuti, e che l’universo Beatles ormai gli stava stretto e che non volevano continuare a cantare She Loves You o A Hard Day’s Night per tutta la vita perché ormai tutto questo non aveva più senso per loro. Per quanto questo sia doloroso da accettare, è pur sempre meglio di quello che fanno tante altre band blasonate che invece hanno deciso di intraprendere una specie di gara ad oltranza, come se la longevità determinasse il peso artistico di una band. Sì, avete capito, sto parlando degli Stones. Alzi la mano chi non ha mai assistito a un dibattito Beatles vs. Rolling Stones, e chi non ha mai sentito qualcuno dire qualcosa del tipo “gli Stones sono meglio perché stanno ancora insieme e ancora suonano come ai vecchi tempi”. La mia domanda è: perché stanno ancora insieme? A mio modesto parere, la risposta è molto più semplice di quello che sembra: perché devono. Perché sanno benissimo che da soli non sono nessuno. Perché sanno che non hanno assolutamente le capacità per costruirsi una carriera solista decente, come dimostrano i pochi album solisti prodotti in mezzo secolo di carriera, tutti caratterizzati da riscontri di pubblico e critica piuttosto modesti, se non mediocri. Quindi non rimane altro che continuare a trascinarsi da una tournée all’altra, portandosi il defibrillatore appresso (non è un eufemismo, ormai sono costretti a portarselo per davvero) e continuando a ripetere il mantra secondo cui loro sono meglio perché ancora sono insieme e fanno concerti (tralasciando il fatto che sia McCartney che Starr continuano ugualmente a fare concerti a tutto spiano). A mio modestissimo parere, invece, anziché spingere qualcuno a compatirti per come ti sei ridotto, è meglio mollare finché si è ancora in tempo per farlo, finché si è in grado di farlo con stile, con eleganza, come hanno fatto i Beatles, chiudendo l’attività dal vivo con un concerto epico e assolutamente fuori dal comune, e chiudendo la carriera con un disco mitologico sotto tutti gli aspetti. È vero, è doloroso, ti lascia una marea di rimpianti, di nostalgie e di perché (specialmente per chi deve assistere a tutto questo), ma sapete qual è il bello? Che così si diventa immortali.

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One comment

  1. Oh my God ..
    Please band stop playing so you became immortal. Please what type of concept is this?! Plus
    The Stones were together for ages before doing something alone , about 20 years and Jagger , despite the fact that I didn’t like his solo effort did ok . Had they done solo projects in 1969/70 at the pick of their creativity well!?
    The Stones are monumental as they have always been, infact they are needed like oxigen. They are musician., they are playing music and like their bluesmen idles they will do so till they drop , do they should. They have already prooved they are immortal.

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