La cronaca di una carriera inimitabile nella dimensione del ricordo immortale
di Paolo Marra
Il 9 settembre del 1998 ci lasciava Lucio Battisti, tra più i grandi cantautori, interpreti e musicisti italiani. La vita artistica del cantante di Poggio Bustone, così ricca di sfumature e continui slanci in avanti, spesso incomprensibili a certi intellettualoidi, suoi contemporanei, è difficilmente catalogabile e, ancor meno, riassumibile. Ma basta l’essenza di un racconto musicale anti generazionale a tracciare la profonda autenticità di uomo schivo ai riflettori, alla retorica fagocitante dello show mediatico che, già in tempi non sospetti, iniziava a dare i primi segni di quell’insanabile piega autoreferenziale. Partendo dall’affermazione dell’economista austriaco Joseph Schumpeter secondo cui “l’innovatore è colui che non inventa niente di nuovo, ma che riesce a combinare in maniera inedita, prodotti e conoscenze gia esistenti…” e applicandola alla musica, Lucio Battisti ne rimane il massimo interprete, ispirandosi a Ray Charles, ma anche ai The Byrds, guardando in avanti alla New Wave, non dimenticando mai la tradizione melodica italiana.
La sua è stata una carriera paradigmatica a quella dei quattro di Liverpool, i Beatles, dove il cambiamento avviane sommando le universali esperienze passate, in un presente in continuo in divenire: dalle poche copie vendute del 45 giri contenente l’incisione effettuata nel 1966 del brano “Per una lira”, al successo di canzoni indelebili come “Acqua azzurra, acqua Chiara”, “Pensieri e Parole”, “I giardini di Marzo” e “Il mio canto libero” alla svolta prog-ambientalista di dischi come “Il Nostro Caro Angelo” (con brani meno frequentati, tra cui “Questo inferno rosa”) al pop raffinato di “Una giornata Uggiosa” o di “Una donna per amico”, per raggiungere l’atto finale, prima del decesso, contrassegnato dai deliri enigmatici ed esistenzialisti degli ultimi lavori, accompagnato dal paroliere Pasquale Panella.
Bastava la sua voce sbilenca, fuori dai binari concettuali dei benpensanti scribacchini dell’epoca, quasi al limite del parlato, ad litteram di acclamate rockstar riempi stadi nostrane, a rompere gli schemi, in un periodo caratterizzato da giovani cantanti melodici, con un’impostazione ben definita alla Gianni Morandi e Massimo Ranieri. Una voce a volte sommessa, altre volte pungente o malinconica, ma sempre didascalica delle emozioni piu profonde, con tutte le fragilità, contraddizioni e smarrimenti dell’animo umano, e perciò di ognuno di noi, al di là dell’anagrafica del tempo, in una perfetta armonia fra il momento vissuto in maniera del tutto personale e un contingente mai del tutto comprensibile.
Il debito della musica italiana nei riguardi di Lucio Battisti non è colmabile, troppo alto il valore del lascito lasciato ai posteri. Come dichiarato da Renato Zero in un’intervista “i suoi album costringevano gli altri artisti a dare di più, a non fare “stupidaggini”, perché erano album di un livello superiore, avanti con i tempi”. Oggi i musicisti dovrebbero percepire la stessa costrizione, attraverso l’umile lezione di un cantautore libero, non sempre difendibile nelle sue scelte, ma pur sempre sé stesso, per dare vita a una nuova rivoluzione artistica, con l’audacia e il coraggio di mettersi in gioco, affinché la “veste dei fantasmi del passato cadendo” lasci “il quadro immacolato” di un domani, che si ispiri, ad essere migliore del presente.