A poco più di una settimana dalla scomparsa del Maestro il silenzio torna a farsi musica
di Paolo Marra
La musica di Ennio Morricone era talmente complessa da risultare semplice a tutti. Comune prerogativa di pochi immensi artisti intenti a comporre, scrivere, dipingere o modellare la materia inanimata, non per soddisfare il proprio mero ego, ma perché consapevoli dell’atto creativo come parte risolutiva di un universo contingente. Ed è qui che si annida il senso della produzione morriconiana, l’universalità emotiva delle sue composizioni, compenetrata nella parte più recondita dell’animo umano, dove ognuno di noi può ritrovare la propria immagine riflessa: il netturbino come il grande regista, la massaia come il famoso attore, il semplice ragazzo come il musicista più affermato. Un’estetica finalizzata a creare immagini mentali ancora prima di diventare parte imprescindibile della superba settima arte di Sergio Leone, nella quale la voce di Edda dell’Orso diventa presenza costante, fisica, punto di riferimento concreto della condizione astratta della musica.
Una presenza accompagnata da altre presenze, in scena e fuori scena, materializzate in suoni aspri, dissonanti o sognanti, reali o volutamente irreali: un’armonica, la voce rauca del coyote, un carillon, un colpo di frusta, una malinconica marcetta, la tagliente chitarra elettrica di Bruno Battisti D’Amario e via dicendo … Ogni personaggio accompagnato dalla sua ombra sonora, da un inseparabile rumore da cui non può liberarsi, perché specchio dei suoi caratteri tipici ed essenziali . Tutto diventa epico, grandioso, onirico ma nello stesso tempo terreno e fragile, offrendo una visione tridimensionale delle nostre esistenze, dove muoversi liberi, tra il Bene e il Male.
Intendiamoci, questo gioco delle parti, tra sottrazione e sovrapposizione di immagini- suoni- timbri- strutture armoniche non è da ricercare unicamente nel sodalizio Morricone-Leone, ma anche nelle innumerevoli collaborazioni con svariati registi italiani e stranieri: Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, Bertolucci, Bolognini, Montaldo, Terrence Malick, John Carpenter, Brian De Palma e tanti altri… ma con “Peppuccio” (Giuseppe Tornatore) in particolare .
La semplicità di Morricone risiedeva nel suo studio, la stanza segreta, luogo di mille alchimie, di cui solo l’amata moglie Maria possedeva le chiavi. Un’umanità schiva ad inutili spettacoli mediatici o a pomposi funerali di Stato, esplicitata nella sua romanità non celata, dall’essere artigiano prima e genio dopo, nel saper percorrere il viaggio della Vita senza dimenticare il detto Latino“ Per Aspera ad Astra”- solo attraversando le condizioni più difficili, grazie a un costante lavoro, si può raggiungere il Divino-Monito imprescindibile per le nuove generazioni spinte dalla propaganda mediatica a cogliere un facile ed effimero successo. Nel libro “Inseguendo Quel Suono- la mia Musica, la mia Vita ( scritto insieme al musicista e compositore Alessandro De Rosa) Morricone dice:
“La parola “Genio” mi ha sempre insospettito e fatto venire in mente una frase, credo, di Edison “Il Genio è per l’1 per cento ispirazione e per il 99 per cento trasudazione”. Sudore, lavorare sodo! Se di ispirazione si vuol parlare, allora si diventi consapevoli che si tratta solo di un momento, e passato quello c’è il lavoro…”
Noi siamo consapevoli della sintesi del linguaggio universale espresso da tale sommo lavoro da ritrovare, senza ombra di dubbio, nella sua innaferrabile modernità; l’immutabilità nel corso del tempo dell’audacia musicale formale o aleatoria che sia. Morricone non è stato Beethoven, Mozart o piuttosto Bach, ma il loro futuro… lo stretto rapporto con la sperimentazione è stata una costante del suo lavoro e ricerca non solo nella scrittura di musica totale ma anche all’interno delle piu acclamate colonne sonore, (ma anche di composizioni e arrangiamenti di brani di musica “leggera”, come nel caso della celeberrima “Se Telefonando”, scritta per Mina nel ‘66). Un assunto percepito in maniera indiscutibile da una schiera ben ampia di giovani artisti, in periodi e territori musicali diversi. Una molteplicità di riferimenti, espliciti o in alcuni casi solo sussurrati (forse per troppa devozione), che danno l’idea dell’ineludibilità del lascito del Maestro nella visione musicale contemporanea: Metallica, Pink Floyd, Muse, Dire Straits, ma anche Michael Kiwanuka nel suo secondo album “Love and Hate” ( nel lungo intro di Cold Little Heart) o la band newyorchese Menahan Street Band ( ascoltate The Traitor)- ma l’elenco sarebbe troppo lungo per sintetizzarlo in questo articolo-. Una frenesia futuristica, sempre razionalizzata da un lavoro contrappuntistico, melodico e timbrico minuzioso, al limite della perfezione, non affievolito dal passare del tempo, come ben dimostra il “Canto del Cigno”, la colonna sonora del film dell’amico- regista Quentin Tarantino “The Heatfull Eight”, premiata nel 2016 con l’Oscar, il secondo dopo quello onorario del 2007.
Morricone non ha creato un genere, ma un nuovo modo di ascoltare i suoni, dandogli significati e prospettive ogniqualvolta diversi, in base al contesto orchestrale, cinematografico, sacrale o di improvvisazione libera nelle quali le sue idee si muovevano per trovare una possibile forma. Dove finisce l’immagine ed inizia la musica? Dove il rumore e il silenzio? Non lo sapremo mai… la percezione sensoriale ci basta per alimentare la memoria delle sua Arte, in cui ritrovare le nostre esperienze fatte di travolgenti gioie e tremendi dolori, prima dell’inesorabile Destino… come per John Mallory ( Séan- Séan ) nell’ultima scena di “Giù la Testa”, prima della Fine.