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ENRICO RAVA, IN VIAGGIO CON LA MUSICA OLTRE IL CORONAVIRUS

Dal mercato del disco che muore agli auspicati fermenti post pandemia, il celebre trombettista ci accompagna attraverso l’analisi del nostro tempo

di Paolo Marra

Musicista raffinato e colto, con un attitudine rivoluzionaria e audace senza tempo, il trombettista Enrico Rava rimane uno dei punti di riferimento del jazz italiano. Viaggiatore instancabile, fin da giovane il trombettista piemontese si trasferisce da prima in Argentina e poi a New York per poi ritornare in Italia tracciando una personale direzione artistica che gli ha permesso in quasi sessant’anni di carriera di diventare uno dei jazzistici italiani più apprezzati a livello internazionale. Un’avventura artistica e umana condivisa nel tempo con numerosi artisti giovani diventati anche loro “portatori sani” dell’energia e dello spirito incontenibile del jazz che hanno reso Enrico Rava un vero e proprio talent scout: Stefano Bollani, Paolo Fresu, Gianluca Petrella solo per citarne alcuni. L’intervista che con molto piacere gli abbiamo fatto è diventata così una profonda riflessione sul difficile momento che stiamo vivendo e una traccia che possa segnare ancora una volta la direzione di un viaggio che speriamo possa riprendere presto.

Come vive la pausa artistica imposta dalla situazione attuale legata all’epidemia da Coronavirus?

Con questa pausa non so quando potrò ritornare a suonare, intanto il tempo passa e non vorrei che questo virus sancisca la fine della mia avventura. A casa sto suonando molto, leggo molto e ascolto dischi. Immagino che quando la cosa comincerà a sgonfiarsi un po’ magari si ricomincerà a fare i concerti, però con tutte le precauzioni del caso in particolare la distanza: un teatro che contiene 500 persone probabilmente ne potrà fare entrare 200, mi chiedo: ci sarà un “benefattore” che potrà sostenere una situazione del genere perdendoci dei soldi?

Torino Jazz Festival

Si potrebbe immaginare un inaspettato innalzamento delle vendite dei dischi visto l’impossibilità di organizzare, almeno per ora, concerti e festival?

Il disco è una di quelle cose che sta scomparendo. Nel futuro chi produrrà la musica saranno i grandi distributori come Spotify e Youtube che non possono continuare a passare brani di John Coltrane piuttosto che di Monk e magari saranno loro che sostituiranno le case discografiche. Se guardiamo le vendite prima del coronavirus erano diminuite in maniera pazzesca. Per esempio prima dell’epidemia la mia media di 35, 40 mila dischi con l’etichetta ECM è scesa a 6 mila, che era già molto in quel periodo. Ma questo è dovuto anche al fatto che ci sono pochi negozi di dischi che era un modo affinché i dischi si vendessero: io andavo in un negozio di dischi a Rapallo dove sfogliavo e trovavo delle cose di cui non mi ricordavo neanche l’esistenza, questo non lo puoi fare su internet dove per trovare qualcosa devi sapere esattamente ciò che vuoi. Manca proprio questo stimolo, l’incontro e il consiglio di altri che trovavi in questi luoghi e che non c’è più.

Come si rapporta lei con la musica in formato digitale?

A me non piace ascoltare la musica in digitale. Io amo i dischi, ne ho migliaia dentro casa, tutto da King Oliver a Louis Armstrong, Bix Beiderbecke che rimane uno dei miei amori fino a Dave Douglas, Peter Evans passando per Dizzy Gillespie, lo swing, il Be Bob…

Enrico Rava con Stefano Bollani in un’immagine del documentario “Note necessarie”

Lei è anche un appassionato dei Beatles

A me piace tutta la musica: I Beatles, i Rolling Stones, i Queen, Sting e i Police, la musica classica e anche quella brasiliana. Ma la mia musica è quella jazz.

Sono scomparsi recentemente alcuni tra i più importanti giganti del jazz, il sassofonista Lee Konitz e il pianista McCoy Tyner, lasciando un vuoto incolmabile. Questo ci spinge inevitabilmente a fare una riflessione su quale direzione sta prendendo il jazz e se poi è quella giusta.

Quello che so è che se il jazz perde l’anima non va da nessuna parte. Io per esempio penso che questi ultimi jazzisti americani siano eccezionali tecnicamente ma non mi emozionano, in loro sento molto un lavoro di cervello ma poco “soul” anima. Ho sempre accettato con gioia le cose nuove che uscivano, mi innamorai di Ornette Coleman quanto uscì ma anche di Albert Ayler e di Don Cherry, ma in quello che propongono questi nuovi musicisti non mi ci riconosco.

Enrico Rava e Danilo Rea

Oggi le nuove generazioni hanno accesso alla musica che gli viene propinata sulle piattaforme web ma forse non hanno accesso a un reale confronto per apprendere quello che stanno ascoltando in un determinato momento.

Sì infatti, il fatto che un certo genere di musica si trovi facilmente su youtube o Spotify non significa viverlo veramente, come dicevo prima è ben diverso entrare in un negozio per comprare un disco, leggere le note di copertina, innamorarsi della musica che si sta ascoltando e poi riascoltarla; è un assimilazione della musica ben diversa. Parlando del jazz, c’è stato un’età d’oro di questo genere, un rinascimento nella quale una quantità di persone geniali lavoravano sullo stesso progetto musicale. È incredibile pensare che negli anni ’40 ci fossero in giro per gli Stati Uniti Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, John Coltrane e contemporaneamente Louis Armostrong, Thelonious Monk e Billy Holiday. Parlavano una musica che era nuova anche per loro a un pubblico che non aveva mai ascoltato una cosa del genere prima. C’era una concentrazione sull’arte non sull’immagine o sulla possibilità di vendere. Quando mi chiedono se ci sono dei giovani che possano colmare il vuoto lasciato da questi grandi io rispondo “ovviamente no”. Quello è stato un periodo storico irripetibile, questo vale sia per il jazz che per la musica contemporanea ma anche per altri ambiti al di fuori della musica.

Si può guardare a questa “sospensione temporale” che stiamo vivendo causato dell’epidemia da Coronavirus come a un veicolo di sensibilizzazione che possa risvegliare propulsioni artistiche proprie della musica del ‘900?

Potrebbe essere simile alla situazione creatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale quando ci fu un’esplosione di energia, di voglia che ci animò. Ho un ricordo vivido di quel periodo, dell”ultimo anno di guerra quando siamo ritornati a Torino, perché eravamo stati sfollati: bombardamenti, impiccati per strada, la Liberazione, i cecchini che sparavano dagli abbaini; sembrava la normalità che non ci fosse da mangiare, che non ci fosse il pane, ciò non toglie che la vita proseguiva normalmente: i negozi erano aperti nonostante avessero poco o niente, la gente usciva, c’erano addirittura le partite di calcio locali nonostante non ci fosse il campionato perché l’Italia era divisa in due. La vita andava avanti, contrariamente ad adesso che la vita è ferma, non si può uscire, le fabbriche sono chiuse. Non è che la guerra sia stata meglio, ma questa è una situazione unica. Quello che mi preoccupa di più è l’incertezza perché ogni esperto dice qualcosa di diverso quando in realtà si sa pochissimo tranne che è un virus estremamente contagioso. Dobbiamo aspettarci un momento molto difficile e solo la voglia di uscirne potrebbe creare una “bomba” di energia. Magari una situazione così orribile ci spingerà a fare delle cose bellissime per vincere. Nel passato dei periodi tremendi come questo hanno creato delle grandi opere d’arte.

Quanto si vede cambiato nel suo approccio alla tromba dai primi anni della sua lunga carriera?

Come i grandi registi fanno sempre gli stessi film i musicisti che hanno una personalità forte hanno sempre lo stesso linguaggio, poi cambiano, vanno avanti. Ho ascoltato il mio primo disco dopo cinquant’anni in cui suonavo la tromba da soli due anni e sono rimasto stupito perché certo suonavo molto peggio di come faccio ora, però suonavo come adesso, sono io. Quello che è cambiato è il modo di gestire i musicisti, il tipo di brani che si suonano, le strutture, l’idea. Come Miles Davis, il cui linguaggio è rimasto lo stesso, ma è cambiata nel tempo l’idea di musica; se si ascoltano i suoi assoli nei dischi con Bill Evans o Wayne Shorter e poi l’assolo che fa con la cantante Chaka Khan negli ’80 il suo modo di suonare è lo stesso. È lui.

Lei in questo senso negli anni ’70 è stato portavoce in Italia di un approccio al jazz libero da qualsiasi schema: da che cosa scaturì una presa di posizione così radicale?

Quando facevo l’improvvisazione radicale tra il ’64 e il ’66 con il sassofonista Steve Lacy era una scoperta continua e questa esperienza, questo senso di liberta, l’evitare qualsiasi tipo di autocensura mi è rimasta dentro anche dopo quando sono ritornato a un linguaggio potremo dire “normale”. Tutte le mie esperienze argentine, il tango, la musica brasiliana fanno parte della mia musica ed ho imparato ormai da molti anni ha ricordarmi della grande esperienza del Free che avuto un’importanza molto forte ma una vita breve.

Ci sono delle vedute contrastanti sull’effettivo apporto del Free nell’ambito jazz, in particolare in Italia.

Il Free è un genere che è stato “fregato” dal fatto di essere una musica dove da un certo punto di vista gli errori non sono facilmente identificabili. In Francia e in Italia era vista come la musica della rivoluzione mentre il jazz ortodosso addirittura come la musica dei servizi segreti americani. E per questo che negli anni ’70 poteva salire qualsiasi “bidone” sul palco, con il fazzoletto rosso ed il pugno alzato, e veniva osannato dal pubblico e questo ha condizionato anche tutti quelli che non erano dei “bidoni”. E invece quello del Free è stato un periodo importante di rottura, di totale libertà espressiva dal qualsiasi tipo di condizionamento.

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